Quarto e ultimo appuntamento di Frontiere News con La casa dei ricordi, il romanzo della scrittrice mozambicana Amilca Ismael. Clicca qui se hai perso le precedenti puntate.
Angela, novant’anni, era una di quelle che non partecipava al catechismo. «Sono stanca di sentire le stesse cose su Gesù, le sento da quando avevo nove anni e, ancora adesso che sono vecchia, mi tocca sentirle per la millesima volta!». Me lo disse un giorno mentre era lì fuori, in quel lungo corridoio, disinteressandosi completamente di quello che diceva la catechista.
Nel pomeriggio gli anziani si trovavano per la merenda e, ogni tanto, per la tombolata, anche se qualcun altro preferiva aiutare le animatrici a fare dei lavoretti che poi venivano venduti a Natale e qualcun altro ancora preferiva fare amicizie con la vicina di carrozzina. Più che in salone, essi preferivano sostare su quel lungo corridoio ad aspettare, e guardare il via vai dei parenti. Qualcuno riceveva visita tutti i giorni, qualcun altro aspettava invano, ma non demordeva e credeva al detto “La speranza è l’ultima a morire”.
«Va bene!» ripeté la nuora di Laura con voce arrogante. Il marito, con aria sottomessa, sussurrò: «Arrivederci». Con un sorriso falso come quello di Giuda salutai. A quella donna non interessava nulla di Laura, era talmente acida e superba da disinteressarsi anche dei sentimenti che Laura provava per il figlio. Nessuno poteva conoscere il rapporto che c’era prima fra loro: Laura potrebbe essere stata cattiva, ma davanti alla solitudine e alla malattia tutto andrebbe cancellato; del resto anche Gesù sulla croce ha perdonato il più cattivo dei cattivi.
Laura non diceva nulla: si accontentava delle briciole d’amore che il figlio le lanciava, come in un grande parco dove qualcuno ogni tanto porta le briciole per nutrire i piccioni che, con il loro verso, ringraziano e si accontentano e aspettano pazienti la prossima briciola.
La cattiveria di quella donna non le permetteva di vedere il male che procurava a Laura e, ogni volta che venivano a trovarla, lei si sentiva ancora più sola. Forse Laura invidiava Teresa, sua compagna di camera, che era stata lasciata lì e mai nessuno era venuta a trovarla. Avevo saputo che anche Teresa aveva dei figli: forse due, ma di lei non volevano saperne nulla. Si trovava lì parcheggiata come una macchina, in attesa di essere demolita. Teresa era triste e sola, ma sicuramente meno dispiaciuta di Laura, perché comunque lei era da tempo che non vedeva i suoi figli e la ferita inferta era ormai guarita.
Teresa è stata abbandonata il giorno stesso che ce la portarono. Chissà che scusa trovarono i suoi figli quando se ne andarono per sempre. Laura invece veniva abbandonata ogni volta che la nuora e il figlio facevano finta di venire a trovarla e, quando sembrava che la ferita guarisse, ecco che la riaprivano. Laura era stanca di questa situazione: non voleva più parlarne. Ogni tanto sorrideva, ma non si voleva lavare più da sola ed era diventata incontinente.
Ormai era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva visto suo figlio. Era malata, stava mollando, non aveva più voglia di vivere. La sua croce, ogni giorno, diventava più pesante e lei non ce la faceva più a portarla: era sempre a letto, ed era dimagrita così tanto che le piaghe da decubito non si erano fatte attendere.
Ogni tanto arrivavano il figlio e la nuora e, da lontano, la guardavano senza avvicinarsi. Chissà quanto sarebbe piaciuto a Laura quel bacio tenero che un giorno Roberto le regalava prima di andare a scuola o prima di dormire, dopo che lei gli aveva letto la sua favola preferita… Chissà che cosa pensava Laura mentre vedeva suo figlio Roberto così vicino e, allo stesso tempo così lontano… Chissà cosa voleva Laura dal suo bambino, ormai diventato uomo, mentre aspettava di passare dall’altra parte della frontiera per mai più tornare indietro… Chissà quanti perché Laura si poneva in quel momento, vedendo il suo unico figlio che la rifiutava… L’unica cosa che la consolava era la consapevolezza che lei lo avrebbe amato fino alla fine.
Un giorno, all’improvviso, Laura si aggravò e la dottoressa di turno decise di chiamare il figlio. Al suo arrivo, la dottores- sa spiegò a lui e alla moglie la situazione clinica della madre: non nascose che era molto grave e che forse non avrebbe superato la notte. Loro non parlavano, ascoltavano senza fare domande.
«Se dovesse peggiorare durante la notte la posso chiamare?» chiese la dottoressa dando per scontato un “certamente, grazie”. «Non c’è bisogno, tanto non posso fare nulla. Passerò domani mattina per vedere come sta» rispose invece il figlio con un’aria indifferente.
Me ne andai via da quella camera. Mi vergognavo io per prima per quello che avevo appena sentito. Quale male poteva avere fatto quella donna per meritare tanta cattiveria? Come si fa a essere così cattivi e indifferenti davanti alla morte? Queste domande mi torturavano, non riuscivo a trovare una risposta.
Aspettai che andassero via quelle persone. Mi disgustavano e, per quello che mi riguardava, non erano degni di nulla. Ritornai più tardi: Laura, ancora una volta, era sola e abbandonata al suo crudele destino e così se ne era andata anche l’unica speranza di riconquistare suo figlio prima di morire. Ero sicura che lei non lo odiava: non odiava nessuno, aveva solo il cuore spezzato dal dolore.
La accarezzai, lei tentò di ricambiare il gesto: del resto lo faceva ogni volta, ma fu inutile, le forze l’avevano tradita. Non riusciva più ad alzare il braccio, allora mi avvicinai e le diedi un bacio sulla fronte; era fredda e sudata. La morte era vicina, era solo questione di tempo e la nostra Laura se ne sarebbe andata per sempre. La sollevai: era leggera come una piuma, lei fece una smorfia di dolore e la girai sul fianco sinistro, per alleggerire quello destro anch’esso decubitato. Lei mi sorrise e il suo sorriso era bello e sincero, lo presi come un grazie, tenendole ancora un po’ le mani stanche e rugose. Tentò ancora una volta di alzare il braccio destro, ma non ce la faceva. Mi avvicinai di più perché sapevo che lei voleva accarezzarmi i capelli: lo faceva sempre, le piacevano i miei ricci.
«Dove sei?» gridò intanto Norma. «Sono da Laura, hai bisogno?». «Vieni che dobbiamo mobilizzare Amalia!». «Arrivo subito!».
Amalia, come tante altre anziane che ogni tanto arrivavano, si era rotta il femore. Una sera si era alzata dalla sedia dopo avere cenato e si era trovata per terra. Furono vani i tentativi di cercare aiuto, il telefono si trovava sopra un mobile alto, e, visto il suo enorme peso, non riusciva a trascinarsi verso la porta per farsi sentire da qualcuno. Così rimase a terra finché l’indomani, alle dieci, era arrivata sua figlia come ogni mattina.
«Ciao Laura, torno fra poco». Lei mi sorrise ancora una volta. Il tempo di alzarmi e sistemare Amalia, poi tornai da lei. Entrai in camera, mi avvicinai e la toccai, ma era già morta, e le chiusi gli occhi che erano rimasti aperti. A bassa voce le dissi: «Buon viaggio, tesoro, riposa in pace».
In quel momento la dottoressa rientrò in camera con Norma. «Dottoressa, penso che sia morta». Non potevamo fare più nulla per Laura: l’unica cosa era pregare, la dottoressa prese me e Norma per mano e tutte e tre dicemmo un’Ave Maria. Subito dopo la morte di Laura la dottoressa si preoccupò di avvisare il figlio, ma non fece neanche in tempo a prendere il telefono, perché in quel momento lui arrivò con in mano il vestito per il funerale. Un vestito blu a fiori, con il colletto bianco: era molto bello ed elegante. Forse sarebbe stato meglio indossarlo da viva che da morta.
«Condoglianze» gli dissi, allungando la mano. «Grazie» mi rispose, con tono indifferente. E aggiunse: «Senta, i suoi vestiti li può anche buttare via». «Va bene. Arrivederci» replicai secca. Laura morì tranquilla, ne ero sicura, ma non ero altrettanto sicura che anche la coscienza di suo figlio fosse tranquilla. Ma questa è un’altra storia.
In quel parcheggio umano che è la casa di riposo c’era anche la signora Giuseppina, ottant’anni, vedova, con sei figli che non volevano più sapere nulla di lei. Era una signora minuta e molto dolce, stava sempre attenta a non offendere nessuno, chiedeva sempre per favore e rin- graziava per ogni cosa. Nunzia ebbe la buffa idea di chiamarmi per scherzo Cioccolatino, anche per il colore della mia pelle. La cosa non mi fece arrabbiare: anzi, trovai che il nome fosse più divertente e più semplice da ricordare per gli anziani. Da allora tutti mi chiamano Cioccolatino.
«Cioccolatino, sei un angelo!» mi diceva Giuseppina ogni volta. Già, secondo loro, noi eravamo dei piccoli angeli mandati da Dio per sorvegliare e vegliare su di loro. Era una sensazione bellissima, anche perché loro te lo dicevano con il cuore, si sentivano protetti, amati e voluti bene. Allora si capiva veramente la gratitudine che queste persone avevano verso di noi, che per loro rappresentavamo la salvezza.
Questo ti faceva capire che il tuo aiuto non si poteva fermare lì, ma doveva rappresentare qualcosa che andava oltre i loro bisogni materiali. C’era chi non si limitava a ringraziare con le parole e ti offriva anche un caffè o dei soldi. Erano situazioni imbarazzanti: trovavi mille scuse per rifiutare, ma loro insistevano e allora capivi che era meglio accettarli per non offenderli.
Anche Lurdes aveva un cuore generoso, mi ringraziava sempre per aver comperato la sua verdura, cosa che assicurava anche a lei la possibilità di comperarsi un pezzo di pane. Solo adesso capisco che anche per Lurdes, pur essendo solo una bambina, io ero un piccolo angelo.
Il lavoro di angelo era piuttosto stressante: dovevi sorridere sempre in ogni occasione, compito difficile perché tante volte il tuo aiuto non veniva accettato a causa del colore della pelle o semplicemente perché non eri simpatica. Nella casa di riposo viveva anche una signora di origine lombarda, piccola e curva: aveva sempre una retina sui capelli, non si era mai sposata, era diffidente e odiava tutti, soprattut- to la gente di colore. Io la conobbi durante il tirocinio.
Era in una camera con quattro posti letto, ma tutte le altre dovevano fare quello che decideva lei. Niente televisione, niente radio e, a una certa ora, le luci dovevano essere spente. La prima volta che entrai in quella camera ero all’oscuro di tutte queste cose.
«Buongiorno!» salutai tutti. «Ciao!» mi risposero solo in due. Una era in coma e non poteva rispondere; Maria, invece, si limitò a ignorarmi. Borbottò qualcosa alle mie spalle, poi si alzò, andò verso l’armadio senza smettere mai di borbottare, trascinando le ciabatte più grandi di una misura.
Era magrissima, pesava a occhio e croce non più di quarantacinque chili. Indossava una camicia da notte azzurra a fiorellini gialli, anch’essa più grande di una misura, ci ballava dentro e sulla testa aveva una retina bianca per non rovinare la permanente fatta dalla parrucchiera qualche giorno prima.
Come una pentola di fagioli il suo rosario non finiva mai, le parole le uscivano a raffica. Non sapevo ancora cosa le era successo, non la conoscevo e questo comportamento mi era indifferente. Non capendo cosa borbottasse pensai veramente che stesse dicendo il rosario.
Dall’armadio color noce con le maniglie nere, che era stato messo lì vicino alla finestra da qualche arredatore, tolse un paio di mutande bianche, dei calzini anch’essi bianchi, un vestito azzurro a pois con dei bottoni blu e, con una camminata veloce, ma senza mai alzare i piedi, andò in bagno sbattendo la porta più forte che poteva.
C’era con me Leonardo, il mio tutor, colui che mi avevano affiancato per tutta durata del tirocinio: praticamente era lui che doveva insegnarmi il lavoro. Leonardo era un ragazzo giovane: aveva trentaquattro anni e io non ho mai capito cosa ci facesse un ragazzo così giovane in un posto come quello, facendo un lavoro prevalentemente femminile.
Di fronte a quel comportamento Leonardo si mise a ridere, conosceva molto bene Maria: era da tanto che lavorava lì. «Se ti va, puoi fare il letto di Maria» mi disse Leonardo. Lui non dava mai ordini, mi chiedeva sempre se avevo voglia di fare o no qualcosa, al contrario dei tutor che avevano le mie compagne di scuola, che erano dei veri e propri comandanti.
«Ok» risposi. Con noi c’era anche Diana: giovane, molto giovane, non aveva più di ventiquattro anni, ma era molto brava. Leonardo e Diana ridevano e io non riuscivo a capire il perché. “La cosa non mi riguarda!” pensai. Leonardo mi raccomandò di rifare bene il letto e di non fare gli angoli perché Maria non li gradiva. Ce la misi tutta, dovevo fare bella figura: ogni cosa che facevo andava sul giudizio finale del tirocinio.
Avevo appena finito, stavo sistemando il cuscino quando Maria uscì dal bagno e, come un toro infuriato, venne verso il letto e lo disfece completamente buttando le lenzuola per terra. Nei suoi occhi c’era tanta cattiveria e soprattutto tanto disprezzo. Non sopportava il fatto che fossi di colore e non faceva nulla per nasconderlo. Farle il letto fu un affronto notevole.
Io rimasi senza parole e, come se in quel momento un pugnale mi avesse ferito al cuore, rimasi impietrita come una statua senza dire nulla. «Tu non sei capace di fare il letto» ribadì con cattiveria. Leonardo e Diana ridevano ancora di più: loro sapevano fin dall’inizio che lei avrebbe disfatto il letto e la cosa li divertiva così tanto da non rendersi conto di quanto io, invece, fossi rimasta male.
«Lo sapevate già che andava a finire così…» dissi con un filo di voce. «Certo che lo sapevamo!». «Bastardi!» replicai. Ma poi ci mettemmo a ridere tutti e tre. Non mi arrabbiai con loro, la presi come una lezione perché di gente come Maria avrei potuto ancora trovarne.
L’indomani mattina, durante la colazione, Leonardo mi diede le posate da portare a Maria. Lei si rifiutò di accettarle, le buttò per terra, si alzò da tavola sempre borbottando e andò verso Leonardo, chiedendo delle altre posate perché quelle che le avevo portato io erano, secondo lei, sporche.
Era la seconda volta che quella donna mi feriva. Ma ancora non dissi nulla e raccolsi le posate che lei aveva buttato sul pavimento. Angela, un’altra occupante di quella camera, mi sorrise come per darmi coraggio e farmi capire che andava tutto bene, scuotendo poi la testa e portando l’indice sulla fronte, fece un segno come per dire: “È matta”. Ricambiai il sorriso e uscii dalla camera.
Maria non perdeva l’occasione per ferirmi, ricordandomi ogni volta le mie radici. Non le ho mai risposto né l’ho mai offesa e, ogni volta che mi trattava male, me ne andavo senza dire una parola. Il tirocinio finì, me ne andai, e, anche se quella donna non era mai stata gentile con me, ero sicura che in fondo le mancavo: ero il suo bersaglio da colpire, ero diventata il suo gioco preferito e ora lei non avrebbe più avuto modo di divertirsi. Come un tifoso fanatico di calcio che non sa più cosa fare, quando finisce il campionato.
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Americhe20 Dicembre 2024Usare l’AI per ridare un’identità a 10 milioni di schiavi afroamericani
- Centro e Sud America20 Dicembre 2024Capoeira, la ‘danza’ che preparava gli schiavi alla libertà
- Nord America19 Dicembre 2024La vita straordinaria di Elizabeth Miller, da Vogue a reporter di guerra
- Europa19 Dicembre 2024La doppia vita di Solomon Perel, nella Hitlerjugend per sopravvivere all’Olocausto