Per il giovedì letterario di Frontiere vi proponiamo la lettura dei capitoli XVII e XVIII del Candido di Voltaire.
CAPITOLO XVII – Arrivo di Candido e del suo servo al Paese d’Eldorado e ciò ch’essi vi videro
Quando furono alle frontiere degli Orecchioni: – Vedete voi, disse Cacambo a Candido, che quell’emisfero non è miglior dell’altro: credete a me, ritorniamocene in Europa per la più corta. – Come ritornarci? disse Candido, e dove andare? Se vado nel mio paese, i Bulgari e gli Abari ci scannano; se ritorno in Portogallo, son bruciato; se restiamo in questo paese, corriamo rischio ogni momento di esser messi sullo spiedo; e poi come risolversi ad abbandonare la parte del mondo ove abita la bella Cunegonda? – Volgiamoci verso la Cajenna, dice Cacambo, noi vi troveremo de’ Francesi, i quali vanno per tutto il mondo ed essi potranno ajutarci. Dio avrà forse pietà di noi.
Non era così facile di andare alla Cajenna. Essi sapevano press’a poco qual cammino bisognava prendere, ma fiumi, precipizj, assassini, selvaggi, eran per tutto terribili ostacoli; i lor cavalli morirono di fatica; le loro provviggioni furono consumate, e si nudrirono un mese intero di frutti selvatici; finalmente si trovarorono presso un fiumicello ornato di alberi di cocco, che sostennero la lor vita o le loro speranze.
Cacambo che sempre dava, al par della vecchia, de’ buoni consigli, disse a Candido: – Noi non ne possiam più, abbiamo camminato assai, vedo un barchetto vuoto, empiamolo di cocco, e gettiamoci dentro, a discrezione della corrente; un fiume conduce sempre in qualche parte abitata; se non troveremo delle cose aggradevoli, troveremo almen delle cose nuove. – Andiamo, disse Candido, raccomandiamoci alla provvidenza.
Essi vogarono per qualche lega fra ripe or fiorite, ora sterili, or piane, ed ora scoscese.
Il fiume si faceva sempre più largo; finalmente si perdeva sotto una volta di spaventevoli scogliere che si ergevano fino al cielo. I due viaggiatori ebbero l’ardire d’abbandonarsi al flutto, sotto quella volta. Il fiume, chiuso in quello stretto, portava con una rapidità e un fracasso terribile. In termine di ventiquattr’ore rividero la luce, ma il lor barchetto si fracassò negli scogli, onde bisognò strascinarsi di rupe in rupe e per una lega intera; finalmente discuoprirono un orizzonte immenso contornato di montagne inaccessibili. Il paese era coltivato sì per piacere, come per bisogno, e da per tutto il prodotto era aggradevole. Le strade eran coperte, o piuttosto adornate di vetture, d’una forma e d’una materia brillante, portando addentro degli uomini e delle
donne d’una bellezza singolare, condotte rapidamente da grossi montoni rossi, che sorpassavano in corporatura i più bei cavalli d’Andalusia, di Tituano e di Mequinez.
– Ecco a buon conto, disse Candido, un paese che val più della Wesfalia. Mise i piedi a terra con Cacambo al primo villaggio che gli si presentò. Alcuni ragazzi, coperti di un broccato d’oro tutto stracciato, giuocavano alle piastrelle all’entrata del borgo. I nostri due uomini dell’altro mondo s’occupavano ad osservarli; le loro piastrelle erano tonde, assai larghe, gialle, rosse, verdi, e gettavano uno splendore singolare; venne voglia ai viaggiatori di raccoglierne alcune, e videro ch’erano d’oro, di smeraldi, di rubini, la minor delle quali sarebbe stato il più grand’ornamento del trono del Mogol. – Senza dubbio, disse Candido, questi ragazzi sono i figli del re del paese, che giocano alle piastrelle.
Apparve in quel momento il maestro del villaggio per ricondurli a scuola: – Ecco, dice Candido, il precettore della famiglia reale.
Quei baroncelli abbandonaron tosto il giuoco, lasciando in terra le lor piastrelle e tutto ciò che aveva servito al lor divertimento. Candido le raccolse, corse dal precettore, e gliele presentò umilmente, facendogli intendere, a forza di cenni, che le loro altezze reali si erano dimenticate del loro oro e delle loro gemme. Il maestro del villaggio, sorridendo, le gettò per terra, guardò un momento la figura di Candido con stupore e continuò il suo cammino.
I viaggiatori non lasciarono di raccorre l’oro, i rubini e gli smeraldi. – Dove siamo noi? grida Candido: bisogna che i figli del re di questo paese sieno bene educati, perché s’insegna loro a sprezzar l’oro e le gemme.
Cacambo n’era meravigliato al par di Candido. Si avvicinarono in fine alla prima casa del villaggio, la quale era fabbricata come un palazzo europeo; una folla di popolo si affrettava verso la porta, e più ancora al di dentro; si faceva sentire una musica graziosissima e un odor delizioso di cucina. Cacambo s’appressò alla porta, e sentì che si parlava peruviano; era questo il suo linguaggio materno, poiché ognun sa che Cacambo era nato al Tucuman, in un villaggio ove non si conosceva che questa
lingua. – Io vi servirò d’interprete, disse a Candido; entriamo, qui v’è un’osteria.
Immediatamente due giovani e due ragazze dell’osteria, vestite di drappi d’oro e guarnite i capelli di nastri, li invitano a porsi a tavola. Furon serviti di quattro minestre guarnite ciascuna di due pappagalli, d’un lesso che pesava duecento libbre, di due scimmie arrostite, d’un gusto eccellente, di trecento colibrì in un piatto, e di seicento uccelli mosca in un altro, di ragù squisiti, e di paste deliziose, il tutto in certi piatti d’una specie come di cristallo di rocca, e i giovani e le ragazze versavan loro più liquori estratti da canne da zucchero.
I convitati erano per la maggior parte mercanti e vetturini, tutti d’una somma civiltà; questi fecero alcune domande a Cacambo col più circospetto riguardo, e risposero alle sue con una maniera più che propria a soddisfarlo.
Terminato il pasto, Cacambo e Candido crederono di ben pagare la loro parte col gettare sulla tavola dell’oste due di que’ grossi pezzi d’oro che avean raccolti; l’oste e l’ostessa diedero in uno scoppio di risa e si tennero per lungo tempo le coste; finalmente rimessosi: – Signori, disse l’oste, vediamo bene che siete forestieri; noi non siamo soliti a vederne; scusateci perciò se ci siamo messi a ridere quando ci avete offerto i ciottoli delle nostre strade; voi, senza dubbio, non avete moneta del paese, ma non è necessario d’averne per desinar qui: tutte le osterie erette per il comodo del commercio son pagate dal governo: avrete avuto un cattivo trattamento, perchè questo è un povero villaggio; ma, altrove sarete ricevuti come meritate d’esserlo.
Cacambo spiegò a Candido tutto il discorso dell’oste, e Candido l’ascoltò con la stessa ammirazione, e con lo stesso stupore che ne aveva risentito il suo amico Cacambo. “Che paese dunque è questo, diceva l’uno all’altro, incognito a tutto il resto della terra; e dove la natura è sì diversa dalla nostra? Questo, probabilmente, è il paese dove tutto va bene, giacchè bisogna assolutamente che uno ve ne sia di questa specie: dica quel che vuole il maestro Pangloss, io mi sono spesso avveduto che tutto andava molto male in Wesfalia.”
CAPITOLO XVIII – Ciò che videro nel paese d’Eldorado
Cacambo testificò al suo oste tutta la sua curiosità; l’oste gli disse: – Io sono molto ignorante, e me ne trovo bene; ma qui abbiamo un vecchio ritiratosi dalla Corte; che è il più sapiente uomo del regno, e il più comunicativo.
Egli condusse Cacambo dal vecchio; Candido allora che non faceva altra figura che di secondo personaggio, seguiva il suo servo. Entrarono essi in una casa molto semplice, poichè la porta non era che di argento, e le soffitte degli appartamenti non erano che d’oro, ma lavorate con gusto tale, che le più ricche soffitte non le oscuravano; l’anticamera non era invero incrostata che di rubini e di smeraldi, ma l’ordine, nel quale tutt’era disposto, correggeva bene quella somma semplicità.
Il vecchio ricevè i due forastieri sopra un sofà spiumacciato di penne di colibrì, fece lor presentare de’ liquori in vasi di diamanti, e appagò poi la lor curiosità in questi termini:
– Io sono nell’età di settantadue anni, e ho saputo dal fu mio padre, scudiere del re, le stupende rivoluzioni del Perù, delle quali egli fu testimone. Il regno ove noi siamo è l’antica patria degli Incas che ne uscirono imprudentemente per andare a soggiogare una parte del mondo, e che furono finalmente distrutti dagli Spagnuoli. I principi della lor famiglia che restarono nel lor paese nativo furono più saggi; essi comandarono col consenso della nazione che nessuno abitante non uscisse dal nostro piccolo regno; ed ecco come ci siamo conservati nella nostra innocenza, e nella nostra felicità. Gli Spagnuoli hanno avuta una conoscenza confusa di questo paese; essi l’hanno chiamato l’Eldorado, ed un inglese nominato il cavalier Raleigh ci si avvicinò circa a cent’anni sono; ma siccome noi siamo circondati da scogliere inaccessibili e da precipizj, perciò siamo sempre stati fino al presente al sicuro dalla rapacità delle nazioni d’Europa; che hanno un’avidità incomprensibile per i sassi e per il fango della nostra terra, e che per averne, ci ucciderebbero tutti dal primo all’ultimo.
La conversazione fu lunga, o andò a cadere sulla forma di governo, su’ costumi, sulle femmine, su i pubblici spettacoli e sulle arti. Candido infine, che avea sempre piacere alla metafisica, fece dimandare da Cacambo se nel paese vi era una religione.
Il vecchio arrossì un poco – Come dunque, diss’egli, potete voi dubitarne? ci prendete forse per ingrati?
Cacambo gli dimandò umilmente qual era la religione d’Eldorado. Il vecchio arrossì ancora. – Che forse possono esservi due religioni? diss’egli: noi abbiamo la religione, cred’io, di tutto il mondo: noi adoriamo Iddio dalla sera alla mattina. – Non adorate voi che un solo Iddio? disse Cacambo, che serviva sempre d’interprete a’ dubbi di Candido – Apparentemente, disse il vecchio non ve ne sono nè due, nè tre, nè quattro: io vi confesso che mi pare che le genti del vostro mondo faccian delle dimande ben singolari.
Candido non lasciava di far interrogare questo buon vecchio: ei volle sapere come si pregava Iddio nell’Eldorado. Non lo preghiamo, disse il buono e rispettabile vecchio: non abbiamo nulla da chiedergli: ei ci dà tutto ciò che ci abbisogna, e noi lo ringraziamo senza fine.
Candido avea la curiosità veder de’ preti, e fece domandare se ve n’erano. Il buon vecchio sorrise. – Amici miei, disse egli, noi siamo tutti preti: il re e tutti i capi di famiglia cantan degl’inni di rendimento di grazie; solennemente, e tutte le mattine, e cinque o seimila musici li accompagnano. – Come! voi non avete frati, che insegnino, che disputino, che governino, che brighino e che facciano bruciare la gente che non è del lor parere. – Bisognerebbe che noi fossimo ben pazzi, disse il vecchio: noi siamo tutti di un medesimo sentimento, e non intendiamo ciò che vogliate dire co’ vostri frati.
Candido a tutti que’ discorsi restava maravigliato, e diceva fra sè medesimo – “Questo paese è ben differente dalla Wesfalia, e dal castello del signor barone: se il nostro amico Pangloss avesse veduto Eldorado non avrebb’egli più detto che il castello di Thunder-ten-tronckh era quel che v’è di meglio sulla terra. È certo che bisogna viaggiare.”
Dopo questa lunga conversazione, il buon vecchio fece, attaccar la carrozza a sei montoni e diede dodici de’ suoi domestici ai due viaggiatori per farli condurre alla Corte – Scusatemi, disse loro, se la mia età mi toglie l’onore di accompagnarvi. Il re vi riceverà in una maniera, di cui non sarete mal soddisfatti, e voi perdonerete senza dubbio agli usi del paese, se ve ne sono alcuni che vi dispiacciano.
Candido e Cacambo salirono in carrozza; i sei montoni volavano, e in meno di quattr’ore arrivarono al palazzo del re situato alla cima della capitale. L’ingresso era di duecentoventi piedi di altezza, e cento di larghezza. È impossibile di esprimere qual ne fosse la materia: si può considerare qual prodigiosa superiorità ella doveva avere su que’ sassi e su quella sabbia che noi chiamiamo oro e gemme.
Venti belle ragazze della guardia ricevettero Candido e Cacambo al discendere dalla carrozza; li condussero ai bagni, li vestirono di abiti tessuti di piuma di colibrì, e dopo i grand’uffiziali e grand’uffizialesse della corona li introdussero all’appartamento di sua maestà in mezzo a due file ciascuna di mille musici, secondo l’uso ordinario. Quand’essi si avvicinarono alla sala del trono, Cacambo dimandò a un grand’uffiziale come bisognava contenersi per salutare sua maestà: se si stava ginocchioni o colla pancia per terra, se si mettevano le mani sulla testa o sul di dietro, se si leccava la polvere della sala, in una parola qual era il cerimoniale. – L’uso, disse il
grand’uffiziale, è di abbracciare il re e baciarlo da una parte e dall’altra.
Candido o Cacambo saltarono al collo di sua maestà, ed egli li ricevè con tutta la grazia immaginabile, e gl’invitò gentilmente a cena.
Frattanto si fece lor vedere la città, gli edifizj pubblici innalzati fino alle nuvole, i passeggi adornati di mille colonne, le fontane d’acqua pura, quelle d’acqua di rosa, quelle di liquor di canna di zucchero, che gettavano zampilli continuamente nelle vaste piazze lastricate di una specie di pietre che tramandavano un odore simile a quello del garofano e della cannella. Candido chiese di vedere il palazzo della giustizia, e il parlamento, o gli si disse che non vi era nulla di questo, nè mai si facean liti. Dimandò se vi erano delle prigioni, e gli si disse che no. Ciò lo stupì d’avvantaggio, e finalmente quel che più gli piacque fu il palazzo delle scienze, nel quale ei vide una galleria di duemila passi, tutta piena di strumenti di fisica.
Dopo di aver trascorsa, tutto il dopo pranzo, press’a poco la millesima parte della città, furono ricondotti dal re. Candido si mise al tavola fra sua maestà, il suo servo Cacambo e molte dame. Non si poteva far miglior pasto, nè si poteva cenare con maggior gusto, di quel che ne provò il re. Cacambo spiegava le idee del re a Candido, e benchè tradotte, eran sempre concettose. Di tutto quel che maravigliava Candido questo non era il meno.
Essi passarono un mese alla Corte; Candido diceva sempre a Cacambo: “È vero, amico, che il paese ov’io son nato non ha nessun grado di comparazione col paese ove siamo, ma finalmente la bella Cunegonda non v’è, e voi ancora avrete senza dubbio qualche amante in Europa. Se noi restiamo qui non vi faremo maggior figura degli altri, invece se torniamo nel nostro mondo con dodici montoni carichi de’ ciottoli d’Eldorado, saremo più ricchi di tutti insieme i re: non avremo più inquisitori da temere, e potremo facilmente riprenderci la bella Cunegonda.
Piacque tal discorso à Cacambo; s’ha tanto gusto a gironzare e farsi valere fra i suoi, e far mostra di ciò che s’è veduto viaggiando, che i due fortunati si risolverono di più non esserlo, e di prender congedo da sua maestà.
– Voi fate una pazzia, disse loro il re: so bene che il mio paese è piccola cosa, ma quando si vive passabilmente in qualche luogo, bisogna restarvi; io non ho al certo il diritto di ritenere i forastieri; questa è una tirannia che non è nè secondo i nostri costumi, nè secondo le nostre
leggi. Tutti gli uomini sono liberi; partirete quando vorrete, ma sappiate che l’escita è ben difficile. È impossibile di rivalicare il rapido fiume su cui siete qui giunti per miracolo, e che corre sotto a volte di scogliere. Le montagne che chiudono tutto il mio regno, hanno diecimila piedi d’altezza, e son diritte come muraglie; esse occupano in larghezza uno spazio di dieci leghe per ciascuna, e non si può discenderle che per precipizj. Per altro, giacchè volete assolutamente partire, io darò ordine agli intendenti di macchine di farne una che comodamente possa trasportarvi; ma quando sarete condotti a traverso le montagne nessuno vi potrà accompagnare; perchè i miei sudditi han fatto voto di non uscir giammai dal loro recinto, ed essi son troppo saggi per rompere il loro voto; pel resto chiedetemi tutto ciò che vi piacerà. – Noi non chiediamo a vostra maestà, disse Cacambo, che alcuni montoni carichi di viveri, de’ ciottoli o del terriccio del paese. – Il re rispose: Io non capisco, qual gusto abbiano le vostre genti d’Europa per la nostra mota gialla; ma portatevene quanta ne vorrete, e buon pro vi faccia.
Egli died’ordine in quell’istante a’ suoi ingegneri di fare una macchina per levar in alto, e calar fuor del regno i due uomini straordinari. Tremila bravi fisici vi lavorarono; essa fu pronta in termine di quindici giorni, e non costò più di venti milioni di lire sterline, moneta del paese. Furon messi sulla macchina Candido e Cacambo; vi eran due gran montoni sellati, e brigliati per servir
loro di cavalcatura quando avessero scalato lo montagne: venti montoni da basto carichi di viveri, trenta che portavano di regali, consistenti in ciò che il paese aveva di più raro, ed altri cinquanta carichi d’oro, di pietre, e di diamanti. Il re abbracciò teneramente i due forestieri.
Fu un bello spettacolo la lor partenza, e la maniera ingegnosa con cui furono innalzati essi e i lor montoni alla cima delle montagne. I fisici presero da lor congedo. Dopo di averli posti in sicurezza, a Candido non restò altro desiderio che d’andare a presentare i suoi montoni alla sua bella Cunegonda, messa forse a prezzo. – Camminiamo verso la Cajenna, imbarchiamoci, e vedremo in seguito qual regno potremo comprare.
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