di Marco Siviglia
Il 9 aprile del 1948, a sei settimane dalla proclamazione dello Stato di Israele, i membri dell’Irgun (gruppo militante sionista classificato come terrorista dalle autorità della Gran Bretagna e dalla maggior parte delle organizzazioni ebraiche, all’epoca guidato dal futuro Primo ministro israeliano Menachem Begin) e della Banda Stern entrarono nel villaggio di Deir Yassin, un villaggio palestinese presso Gerusalemme ovest; l’attacco venne sferrato nel quadro dell’Operazione Nachshon, che rappresentò il primo passo del Piano Dalet (messo a punto per esercitare controllo sul territorio usando ogni mezzo, tra cui “dar fuoco, distruggere e minare le rovine” ed espellere la popolazione se “difficile da controllare”).
I terroristi trucidarono più di cento persone (il villaggio contava circa 600 individui) e rasero al suolo gran parte delle case e persino molte delle lapidi del cimitero; la resistenza palestinese fu dura, e 4 miliziani sionisti persero la vita. Inizialmente le fonti ebraiche gonfiarono volontariamente il numero delle vittime (parlarono di 254 morti tra gli abitanti del villaggio) per cercare di terrorizzare la popolazione araba spingendola a lasciare i territori su cui sarebbe sorto lo Stato d’Israele. Lo stesso comandante dell’Irgun confermò che l’esagerazione era stata fatta con l’idea di portare “la popolazione araba in una situazione di panico”. E i palestinesi cavalcarono questa esagerazione sperando di unire gli abitanti dei villaggi limitrofi contro i gruppi ebraici, arrivando addirittura a denunciare stupri a danno di donne di Deir Yassin mai avvenuti. “Quello fu il nostro più grande errore. Non capimmo come la gente avrebbe reagito” dichiarò 50 anni dopo in un’intervista alla BBC Hazam Husayni, che nel 1948 lavorava presso il Palestinian Broadcasting Service. “Come sentirono che le donne erano state violentate, i Palestinesi cominciarono a fuggire”.
Il governo di Tel Aviv tentò più volte di ridimensionare la strage. Il ministero degli Esteri pubblicò nel 1969 un libretto in inglese che, seppur ammettesse che fossero stati uccisi dei civili, negava una premeditazione dietro la strage stessa. Quando alcuni ex leader dell’Haganah (un’organizzazione paramilitare ebraica in Palestina durante il Mandato britannico dal 1920 al 1948) chiesero il ritiro dello “scandaloso dépliant” il ministero degli Esteri rispose: “Mentre è nostra intenzione e nostro desiderio mantenere l’esattezza dell’informazione, siamo talvolta obbligati a deviare da questo principio quando non abbiamo scelta, o mezzi alternativi per respingere un attacco propagandistico o una guerra psicologica araba”. Lo storico israeliano Ilan Pappé nel suo libro A History of Modern Palestine, commenta così il contenuto del libretto propagandistico:
“Alcuni massacri furono commessi nei pressi di città con popolazione mista, talvolta come rappresaglia agli assalti palestinesi ai convogli di ebrei, ma assai spesso si trattò di brutalità gratuita. È possibile che si intendesse indurre alla fuga, come in effetti avvenne, i palestinesi residenti nelle zone cadute in mano ebraica, agitando la minaccia della fucilazione o della cacciata. Queste atrocità non furono commesse a caso: rientravano, infatti, in un piano di carattere generale finalizzato a sbarazzare il futuro Stato ebraico dal maggior numero possibile di palestinesi”
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[…] Gerusalemme Ovest. La popolazione venne trucidata, le case rase al suolo. A 65 anni dal Massacro (leggi qui la storia completa), non è ancora concesso l’ingresso al cimitero (o, meglio, ai suoi resti, dato che i […]