Intervista di Teodora Malavenda
6 aprile 2009. Un violento terremoto distrugge L’Aquila e altri 56 paesi abruzzesi. 309 sono le vittime. Il capoluogo è quasi interamente raso al suolo. Cumuli di macerie sbarrano le strade e sotto gli occhi dei sopravvissuti la storia di un popolo diventa polvere.
Oggi in occasione del terzo anniversario, propiniamo ai lettori alcune immagini tratte da “Temporary?Landscapes”, un progetto fotografico a cura di Massimo Mastrorillo che di seguito ci ha rilasciato anche un’intervista.
Con l’augurio che la memoria e l’identità del prezioso territorio abruzzese perseverino nel tempo.
Per prima cosa ricordiamo ai lettori cos’è e come si articola Temporary?Landscapes.
Dall’aprile 2009 ad oggi ho portato avanti un progetto di documentazione sull’Aquila e le conseguenze del terremoto in questa città e nella provincia. Il titolo del progetto è Temporary? Landscapes. La temporaneità come continua evoluzione dei paesaggi in una situazione di emergenza. Il punto di domanda per sottolineare come dietro questa evoluzione si nasconda l’assenza di programmazione e, al momento, di un futuro. L’immediato post terremoto, il G8, lo stato di abbandono. In gran parte paesaggi, still-lifes, per enfatizzare attraverso la presenza-assenza delle persone come siano cambiate la realtà sociale e la topografia di queste aree.
Ho ideato e realizzato questo progetto per restituire qualcosa a queste persone che ho preferito per lo più non ritrarre. La fotografia per la gente comune, non solo più per gli addetti ai lavori; la fotografia come punto di partenza per creare dialogo, risvegliare interesse, partecipazione. La fotografia per non dimenticare. Il 6 aprile 2011, data del secondo anniversario della tragedia, manifesti di varie dimensioni con le mie foto sono state esposti per le vie del centro storico della città e dei paesi limitrofi. Contemporaneamente è stato attivato un blog con lo scopo di realizzare una piattaforma di discussione e interazione per gli aquilani e per il resto del Paese ed è stato distribuito gratuitamente un giornale con una selezione delle foto del progetto. Con il contributo di FNAC è stata realizzata anche una mostra fotografica itinerante che sarà possibile vedere in Italia e in Europa.
In questi mesi abbiamo ascoltato promesse, pareri, opinioni e critiche riguardo a ciò che è accaduto dopo il 6 aprile 2009. Quali sono le tue impressioni a tre anni di distanza dal terremoto?
L’Aquila è una città dimenticata a cui hanno tolto l’anima. La periferia è in gran parte ricostruita, in continuo mutamento; il centro storico, il più esteso d’Italia, è una sorta di grande scenografia teatrale abbandonata, dove tutto si regge grazie a impalcature e travi. Esistono piccole “isole” dove la gente si sforza di vivere e condurre una vita normale ma il resto del centro storico è abbandonato e buio come tre anni fa. E’ una città meno militarizzata ma, se da un lato questa può sembrare una piccola conquista, dall’altro è lo specchio dell’abbandono in cui è stata lasciata la città dopo che la politica l’ha usata per scopi mediatici ed elettorali. Questa smilitarizzazione è anche la conseguenza di un episodio gravissimo avvenuto recentemente, che ha visto lo stupro efferato e di una violenza inaudita da parte di un militare nei confronti una ragazza aquilana.
Ti sei recato nei territori colpiti dal sisma quasi subito dopo l’evento. Cosa ti ha colpito maggiormente?
Ho visto e documentato terremoti ben più gravi di quello dell’Aquila ma, credo che questo sia stato l’unico usato in chiave mediatica e politica e questo sin dai primi giorni. Si respirava nell’aria qualcosa di diverso. Le scosse sismiche erano frequenti e intense da settembre del 2009. Le responsabilità delle autorità sono state provate. Era una tragedia evitabile che, per una serie di circostanze fortunate, è stata di dimensioni inferiori a quanto poteva essere. In tutto questo caos è stato creata un’opera d’arte mediatica che ha narcotizzato la gente, un teatrino con attori di grande talento che si sono espressi ai massimi livelli nella sceneggiata del G8.
L’altro aspetto che colpiva era camminare per le strade di una città storica ferita gravemente, abbandonata, dove gli unici suoni erano quelli degli allarmi dei negozi e delle case e gli
ululati dei branchi di cani abbandonati ormai unici padroni della città insieme a militari e forze di polizia.
Come immagini il territorio aquilano nei prossimi mesi?
Il governo tecnico sta facendo nuove promesse e prendendo impegni ma, non ci sono risorse. L’Aquila poteva essere un esempio di ricostruzione mirata. Diversi architetti famosi si erano offerti di riprogettarla gratuitamente e farla diventare una città sostenibile, rinata dalle sue ceneri e macerie. L’arroganza e gli interessi economici di chi ha gestito l’emergenza lo ha impedito. Ci vorranno anni per ridare un po’ di anima a questa città e comunque non potrà mai più essere come prima. L’unica vera speranza sono i giovani e il forte legame che gli Aquilani hanno con il loro territorio e con la loro città. Un elemento quest’ultimo, del tutto trascurato ma che poteva essere ed è un valore aggiunto.
La fotografia come strumento di comunicazione: che contributo può dare in situazioni drammatiche come quella abruzzese?
La fotografia ha molti limiti. Non credo molto nella sua funzione di denuncia immediata. Centinaia di fotografi si sono riversati per le strade dell’Aquila e dei paesi circostanti nei giorni del delirio mediatico post terremoto ma, ben pochi hanno poi continuato a documentare le conseguenze sul territorio e sulla gente. Una volta calato il sipario sembra che tutto cessi di esistere come se le ferite, le conseguenze, la ricostruzione del tessuto sociale ed economico fossero un qualcosa di scontato e trascurabile. Credo che la fotografia possa contribuire a porsi delle domande, a riflettere più attentamente sugli eventi, i legami che ci sono tra le persone e i territori in cui vivono. Per farlo deve educare e arrivare alle persone comuni. Troppo spesso è relegata agli addetti ai lavori. Solo quando riesce ad uscire da questo ghetto può avere una sua funzione e un suo ruolo in un’epoca in cui l’immagine è un elemento di cui più nessuno può fare a meno ma, che più nessuno “metabolizza” veramente.
*Massimo Mastrorillo (Torino, 1961). Vive a Roma. Si è diplomato in fotografia presso l’Istituto Europeo di Design di Roma. Ha lavorato a progetti a lungo termine in Mozambico, Iraq e Turchia e Indonesia. Tra il 2005 e il 2007 ha lavorato ad un progetto di documentazione in nove città del mondo dal titolo The Width of the Line. Dal 2008 con Omicidio Bianco, sta documentando il problema delle morti e gli incidenti sul lavoro in Italia e con Temporary? Landscapes l’impatto sociale e ambientale del terremoto in Abruzzo. Ha ricevuto diversi premi internazionali tra cui il primo premio nella sezione Natura al World Press Photo, il Picture of the Year International, il Best of Photojournalism, il PDN Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. Finalista all’Aftermath Grant 2011.
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