Dead Man Talking, uomo morto che parla. Questo il titolo del documentario choc del regista australiano Robin Newell trasmesso dalla BBC che denunciava l’atrocità del reality show “Interviews Before Execution” trasmesso sulla tv cinese della provincia di Henan, nella Cina centrale, dal 18 novembre 2006, riuscendo inoltre, ad ottenerne la chiusura (ufficialmente dovuta a “problemi interni”). Il reality, uno dei più seguiti della rete televisiva, andava in onda ogni sabato sera registrando punte di ascolti fino a 40 milioni di spettatori e mostrava la giornalista Ding Yu, soprannominata “la bella con le bestie”, intenta ad intervistare i condannati all’esecuzione capitale pochi giorni prima della stessa.
“Non ti penti per quello che hai fatto?” , “come si sentono secondo te i parenti della vittima?”, queste alcune delle domande con le quali la giornalista incalzava i condannati in pigiama arancione e con mani e piedi incatenati. A cui facevano seguito anche affermazioni come: “E’ una fortuna che tu sia in galera per ciò che hai fatto, una fortuna per la società. Tu sei pericoloso per la società. Tu sei un escremento”. Nessuna crudeltà secondo Ding Yu alla base del programma, “se lo meritano”. “Vogliono essere ascoltati. Alcuni mi hanno detto: sono contento, in carcere non c’era nessuno con cui potessi parlare”.
Il reality era visto di buon occhio dalle autorità cinesi che attribuivano al programma un intento decisamente educativo e di monito e deterrente alla criminalità. ”Vogliamo che la gente sia avvertita sulle conseguenze delle proprie azioni. Pensiamo che in questo modo molte tragedie potrebbero essere evitate. E questo è un bene per la società”, ha affermato Lu Peijin, direttore del canale che produce lo show. Perfettamente in linea, quindi, con il proverbio tradizionale cinese per cui è necessario “ammazzare la gallina per spaventare le scimmie”.
Sullo schermo di 40 milioni di telespettatori, ogni sabato sera, si sono susseguiti 255 (questi gli intervistati da Ding Yu) uomini e donne che piangono, urlano, chiamano la mamma con la tragica consapevolezza che di lì a poco verranno fucilati. In Cina, infatti, le esecuzioni capitali, migliaia ogni anno secondo le organizzazioni umanitarie poichè sui dati il governo mantiene il massimo riservo – avvengono prevalentemente attraverso la fucilazione, spesso collettiva, e dal 1997, con l’iniezione letale, ritenuta più “umana” e meno brutale.
La Cina – stando ai dati raccolti da Amnesty International e da altre Ong – detiene il record per la pena di morte, seguita dall’Iran, per un numero crescente di reati. Dai 28 reati punibili con la pena capitale si è passati a quasi una settantina nel codice penale del 1997, reati che vanno dall’omicidio alla frode fiscale, passando per il gioco d’azzardo la bigamia e la pirateria informatica.
Valentina Ersilia Matrascìa
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