Maurizio Costantino racconta ciò che ha visto con i suoi occhi a Leros, l’isola greca che ospitava l’omonimo ospedale psichiatrico. A seguito di una risoluzione dell’Ue, negli anni ’90 l’istituto ha conosciuto una profonda riforma, grazie all’intervento degli operatori internazionali. Fino ad allora, Leros era un’inferno e la dignità degli internati veniva letteralmente annullata.
Agosto 1993. Sono entrato per la prima volta al reparto B1 del padiglione 11 dell’ospedale psichiatrico di Leros nell’agosto del 1993: quattro stanzoni con 20 letti ciascuno – niente lenzuola e cuscini, sudicie gommepiume per materassi, una vecchia coperta – estate ed inverno; un grande refettorio – tavoli e sedie a disposizione solo alle ore prefissate; un armadio con i vestiti di tutti i giorni per 56 persone, due docce – di cui una inutilizzabile; una cucina dove non si cucina, ma da dove si distribuiscono i pasti che gli internati vanno a prendere alla cucina centrale.
Chi da venti, chi da trenta anni: per tutti il tempo è scandito dal mangiare, dalla distribuzione delle sigarette, dalla doccia settimanale. Si mangia: un piatto pieno al centro della tavola per quattro o cinque persone, uno o due bicchieri di plastica, sempre per quattro o cinque, così, dopo, c’è meno da lavare. I pasti durano cinque minuti, di orologio. Si mangia poco e male.
Per lavarsi – dieci persone al giorno, cinque la mattina e cinque il pomeriggio – si aspetta il proprio turno nudi in corridoio, proprio davanti la porta d’ingresso del reparto. Ed anche se si è capaci di lavarsi, si viene lavati. Il tutto dura venti minuti per gruppo, al massimo. Le sigarette, dopo il pranzo, possono essere due o tre, o nessuna, ad insindacabile giudizio di chi distribuisce.
Per alcuni c’è il lavoro. Un internato per dodici ore al giorno gestisce le distribuzioni del cibo e lava, con impeccabile cura, docce e gabinetti. In cambio ha l’autorità di chi può dare o togliere un pezzo di pane, ed un intero ripiano dell’unico armadio per i suoi vestiti da lavoro. Altri pazienti puliscono il refettorio, rifanno quel poco che c’è da rifare dei letti, trasportano le immondizie, o i vestiti sporchi alla lavanderia centrale.
Per chi vuole allontanarsi almeno un po’, e ne ha le energie, ci sono un paio di ore la mattina nella grande piazza d’armi di fronte al padiglione. La piazza d’armi era il centro della base navale che per cinquanta anni, all’inizio del secolo, ospitò più di tremila militari italiani: caserme per i soldati, magazzini, officine per idrovolanti, sommergibili e cannoni, villette per ufficiali ed uffici. Questo era, prima, l’Ospedale Psichiatrico di Leros.
Quella piazza d’armi, quella enorme spianata di terra rossa, battuta dal vento di inverno, sotto il sole torrido d’estate, è stata per anni il teatro della solitudine di centinaia di internati. Uomini mal vestiti, poco o per niente vestiti, distesi, rannicchiati per terra o, silenziosi, camminando. Sguardi furtivi, mozziconi che passano di mano o raccolti da terra. Scatti di corsa, che improvvisi nascono e muoiono, in assenza di scopo. Uno piange ed un altro grida.
Per un paio di ore al giorno nessuno ti dice cosa devi fare. Ma, paradossalmente, questa libertà conferma a questi uomini che per quanto facciano, per loro non c’è niente da fare. Gli infermieri dell’Ospedale – 400 per 400 internati uomini – non sono infermieri. Sono filakès: guardiani. Contadini e pescatori che hanno trovato nell’impiego statale l’unica risposta al depauperamento dell’isola. Mai gli è stato detto, e ancor meno mostrato o dimostrato, che un ospedale può/deve almeno cercare di essere un luogo di cura, di riabilitazione.
Li guardo, discuto con loro. Vedo volti antichi, mani che hanno a che fare con la terra, gente che conosce la fatica. Esprimono sentimenti forti, hanno il piacere di condividere la bellezza della loro terra ed hanno paura che gli si porti via, con l’ospedale, il loro pane.
Chiusi ed abbandonati essi stessi in quei padiglioni, contraddittoriamente hanno resistito e si sono adeguati, hanno promosso la legge del più forte e nascosto la loro comprensione dell’altro. Sadismo, sfruttamento, furono la regola. Compassione, protezione, le eccezioni.
Verso la fine di quella prima visita un uomo mi avvicinò e mi mise in mano, con discrezione, uno strano oggetto. Era un intreccio di fettucce di stoffa, annodate. Animate. Ricordo, in quel corridoio, una botte di acqua potabile con un bicchiere per 56 persone, la televisione – in alto – accesa, rumore di pentole di alluminio, voci.
Ricordo uno sguardo, dei capelli d’argento, un corpo agile e nodoso, di vecchio. Ricordo, insieme all’imbarazzo, il mio sollievo, la mia gratitudine per questo corpo che senza nulla chiedere, affermava il suo esistere in quella desolazione.
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