Nell’inferno di Leros, il manicomio dove non esisteva dignità – parte 2

Maurizio Costantino racconta ciò che ha visto con i suoi occhi a Leros, l’isola greca che ospitava l’omonimo ospedale psichiatrico. A seguito di una risoluzione dell’Ue, negli anni ’90 l’istituto ha conosciuto una profonda riforma, grazie all’intervento degli operatori internazionali. Fino ad allora, Leros era un’inferno e la dignità degli internati veniva letteralmente annullata. (Qui la parte 1).

Padiglione 16 dell'Ospedale Psichiatrico di Leros, 1994 - © Alex Majoli / Magnum Photos

Novembre 1993

Quando, mesi dopo, fu finalmente possibile iniziare un intervento in quel reparto, la parola d’ordine fu molto “semplice”: uscire con i pazienti. Così, ogni giorno, da quel reparto cominciarono ad uscire sei o sette persone. Uscire significava rompere il ritmo della vita normale del reparto. Significava aver bisogno di vestiti, di soldi. Di una doccia calda fuori orario. Uscire poteva significare un nuovo modo di avvicinarsi a ciascun paziente, e significava, per lui e per noi, misurarsi con la realtà delle persone, delle cose, della natura, fuori.

 Le undici di mattina di una splendida giornata del gennaio 1994

Vassili ( l’uomo del regalo di alcuni mesi prima), Sofia – una giovane operatrice del programma di riabilitazione, Maria – una pulitrice del reparto, ed io, usciamo insieme.

Vassili: giacca, cravatta, tutto un po’ più piccolo della sua taglia ed un po’ spiegazzato. Ma si intravede qualcosa che si ha quasi timore di ammettere: forse è proprio per avere vissuto trenta anni in mezzo alla fame, al freddo, alla paura, che il rispetto di sé che Vassili ci mostra è così indiscutibile. Dove si va? al ristorante, in riva al mare. Ci sediamo, viene ordinata una quantità di piatti, mentre Vassili, visibilmente indifferente a questa inusuale abbondanza, con una mano davanti la bocca canticchia, con la cadenza di un cantastorie: “Leros, Lipsi, Athina, Volos, Kalkida, Kimi” e poi: “Omonia” ed altre parole che non capisco. Il tavolo si riempie: polipo, tzatziki, frittelle, tonno, stuzzichini. Vassili ha infine chiesto una spremuta d’arancio.

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Ma cos’è questa lista di nomi? Luoghi? Sono, a ritroso, le tappe di un viaggio cominciato chissà quanti anni fa al suo villaggio, nell’isola di Eubea, vicino Kimi. Vassili ci sta a rispondere: ha fatto un po’ il muratore a Volos ed a Atene. E poi: “Voglio tornare al mio villaggio!”. Chiaro, indiscutibile, comprensibile, carico di senso. Con Sofia e Maria siamo attenti, stiamo chiacchierando con Vassili, e c’è una certa consapevolezza che non sono chiacchiere fini a se stesse, ma che forse quel cantare – fino ad oggi delirio – è, può, potrebbe essere, un futuro – oltre che avere costituito un presente tra noi. “Omonia” ed altre parole cantate, cantilenate, che non capisco, ma che hanno il ritmo di una passeggiata. “Omonia” che è tonda, che è il cuore di Atene. Quanti anni fa’? Più di venti o trenta. E’ un elenco di bar, negozi, tutt’intorno a piazza Omonia, quello che Vassili ci snocciola!

Omonia, il cuore di Atene, trenta anni fa. Mercanti, ambulanti, poeti, prostitute, trafficanti, protettori, clochards, viveurs, musicisti, marinai, negozianti, gente dalle provincie di Grecia. Oriente ed occidente. Vassili ne parla come se ci fosse in quel momento, ne parla come della sua vita, ne parla – ne canta anzi – come cantando di sé. “Voglio andare al mio villaggio! Voglio andare ad Atene!”. “Si, Vassili.”

Poi Vassili si alzò e si mise a parlare ad alta voce, adirato. Il ristorante era quasi vuoto. Io non capivo cosa dicesse. Né capii cosa gli disse Dimitri, il padrone del ristorante. Ma era evidentemente un parlare proprio a lui, a Vassili. Un confronto che durò qualche battuta e che finì con soddisfazione d’entrambi. Vassili, quella mattina, era ascoltato, capito, interrogato, risposto, ribattuto. Con una storia, una personalità, forse un futuro.

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Tornammo in Ospedale ed all’assemblea quotidiana di tutti gli operatori raccontammo cosa ci era successo. Si prospettò l’idea di fare veramente questo viaggio a ritroso con Vassili. Si parlò di lui, si incrociarono ricordi, osservazioni, perplessità. Si poteva organizzare praticamente questo viaggio? Quali rischi, quali prospettive? Riandare al passato, ad una famiglia che lo aveva dimenticato per trenta anni, tutto ciò non lo avrebbe fatto poi rientrare a Leros con gravi rischi di depressione – si chiese qualcuno? Prevalse una specie di buon senso. Ci fu un accordo implicito sul fatto che ciò che contava forse di più era accertarsi se l’equipe nel suo complesso, e tre o quattro persone più specificatamente, fossero disposte ad assumersi la responsabilità di organizzare, ma soprattutto quella di aprirsi ad una esperienza condivisa con Vassili, fuori da quei muri.

Credo che non dimenticherò mai quell’assemblea. I partecipanti appartenevano a due gruppi: da una parte filakès con quindici, venti, trenta anni di lavoro, dall’altra, giovani assunti per l’applicazione del Programma finanziato dalla Unione Europea. I vecchi non potevano che essere sospettosi: in nome di cosa si veniva a cambiare una vita a cui probabilmente ciascuno di loro aveva fatto una grande fatica ad adattarsi, anche se qualcuno di loro aveva finito poi per adattarvisi con particolare soddisfazione? I vecchi si erano trovati talvolta anche uno per turno con 100 internati. Cento sconosciuti ai quali l’ultima tappa del viaggio, la deportazione a Leros, aveva tolto anche gli ultimi brandelli di storia.

I luoghi in cui questi contadini, pescatori si erano ritrovati a lavorare come filakès avevano inequivocabilmente trasmesso loro quale era la considerazione in cui gli internati erano tenuti dai responsabili: poco mangiare, pochi vestiti, poco riscaldamento, niente medici o quasi, catene. Allora, la lotta per sopravvivere in quelle condizioni, non era solo quella degli internati, ma anche quella di chi ci lavorava. Per tutti – mi dicevo – l’unico pensiero non poteva che essere sopravvivere a quel presente. In quell’assemblea si realizzò una saldatura tra i due gruppi: nessuno stava dicendo ai filakès che ciò che facevano era sbagliato, ma semplicemente che si poteva fare anche qualcosa d’altro. Un ritorno alla propria terra, forse a trovare semplicemente delle tombe, o dei muri di una casa d’infanzia, od un compagno di scuola. E quei filakès, il valore della propria terra, delle tombe, dei muri di casa, di un compagno, non l’avevano ancora perso. In breve si accertò che i soldi c’erano. Bisognava ora che dei volontari si offrissero.

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Continua…


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