Nell’inferno di Leros, il manicomio dove non esisteva dignità – parte 3

Maurizio Costantino racconta ciò che ha visto con i suoi occhi a Leros, l’isola greca che ospitava l’omonimo ospedale psichiatrico. A seguito di una risoluzione dell’Ue, negli anni ’90 l’istituto ha conosciuto una profonda riforma, grazie all’intervento degli operatori internazionali. Fino ad allora, Leros era un’inferno e la dignità degli internati veniva letteralmente annullata. (Qui la parte 1 e la parte 2).

foto da Flickr

Febbraio 1994.

“Oggi è il ventidue, due, millenovecentonovantaquattro: ventidue più due, ventiquattro, più uno venticinque, più nove trentaquattro, più nove quarantatré, più quattro quarantasette e meno uno quarantasei. Diviso due, fa ventitré. Domani è il ventitré. Usciamo?”

Benedetto Vassili che da ventitré (sic!) anni gioca con i numeri e forse si salva il cervello, mentre tutti pensano che fettucce, canzoni e numeri non siano che deliri!
Una riunione, a partire dalla cartella clinica di Vassili : genitori morti, un fratello ed una sorella al villaggio natio, due fratelli di cui non si avevano notizie, nessun contatto durante i ventitré anni di ricovero a Leros, né con i familiari, né con altri, due date di nascita con una differenza di sette anni, un primo ricovero ad Atene nel 1965….ma soprattutto una partecipazione di tutti alla discussione, impressioni, ricordi, la difficoltà di assumersi un’inusitata responsabilità e la conferma che comunque Vassili sarebbe stato tra i primi internati che avrebbero abbandonato il reparto per andare a vivere – in gruppo di sei o sette – in un appartamento che si stava attivamente cercando. Programma al quale Vassili non rispondeva né si né no, ma ricordando in maniera ferma
e posata che il suo obiettivo era il villaggio.

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Vassili si ritrovò, ed io credo anche che seppe mettersi, al centro dell’attenzione. Non ci fu alcun protagonismo in questo da parte sua: era già, nel reparto, un personaggio “aspro” ed in qualche modo rispettato. Forse anche per una sua avvertita indomabilità: erano ventitré anni per esempio che non si riusciva ad impedirgli di tagliare strisce di lenzuola con le quali confezionava, in una sequenza di nodi, i suoi oggetti animati. Ma anche cinture e fettucce che sostituivano, con eleganza, i bottoni spesso mancanti delle camicie.

Vassili comunque seppe approfittare di quel nuovo clima, che contraddittoriamente si andava determinando nel reparto ed attorno a lui. Anzi, sembrava non attendere altro: cambiandosi in vista di una uscita, verificando di non essere osservato o comunque facendo notare di sapere di essere osservato – vuotava le tasche dei suoi innumerevoli oggetti personali. Indossava con fretta trattenuta un vecchio completo blu gessato e fuori…… il barbiere era una tappa d’obbligo di quelle prime uscite: il piacere di qualcuno che si prende cura di te, due frasi, forse un senso di pulizia e poi…… in piazza.

La piazza principale del paese, al caffè. Osservava, guardava la vita intorno a lui, forse tentava di riconoscere ciò che era cambiato, e ciò che non cambierà mai. Al bar non voleva mai niente e solo dopo insistenze accettava un caffè od una aranciata. Lo faceva in un modo che ci ha fatto pensare che questo ridurre a zero i suoi bisogni fosse stato proprio una scelta: quella di non chiedere niente, di non aspettarsi niente, di non voler aspettarsi niente. Non un adattarsi (dopo ventitré anni!) ad una situazione in cui non si ha alcun diritto, ma proprio il non chiedere nulla, dicendo così all’istituzione, alle persone che la incarnano: “avete potere, ma non vi chiedo e non vi chiederò mai nulla, perché il vostro dare o non dare è arbitrario, è solo il vostro bisogno di dimostrare chi comanda.”.

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A volte scoppi d’ira. Improvvisa come era scoppiata, si placava. Inevitabili: l’impressione di un profondo rifiuto e di un bisogno dirompente di dire, di affermare la propria presenza. Un alzare la voce che mi pareva anche accolto dai presenti come parte di quella abitudine mediterranea alla forte, ostentata e quasi teatrale, espressione pubblica dei sentimenti.

E poi – da solo – nei dintorni. Passeggiate, incursioni, dalle quali tornava sempre con qualcosa: un pacco di noccioline, due frutti, una scatola di fiammiferi. Frutto incontestabile della sua autonoma capacità di incontrare la gente. Le uscite dal B1 si moltiplicavano, la vita interna era profondamente messa in discussione. Il Programma dell’Unione Europea trovava le condizioni politico-istituzionali per svilupparsi. Le resistenze erano sempre forti: l’intera economia dell’isola era stata gestita usando il manicomio come fonte di soldi e privilegi. Non mi sembrava ingiustificata, da parte di molti infermieri, quella resistenza al cambiamento che sembrava dire: “non è che state parlando di grandi cose, ma alla fine sarà solo un cambiamento di comando, che nulla cambierà?”. Insomma il gioco era proprio interessante!!!

Poi per Vassili, per il suo viaggio, apparvero i “volontari”: Lianna, psicologa che era incaricata dell’organizzazione dell’appartamento in cui Vassili sarebbe dovuto andare ad abitare, e Iannis, infermiere che nello stesso appartamento sarebbe andato a lavorare. Accordo conseguito, preparativi, i soldi necessari, i documenti, i punti di appoggio lungo il viaggio….fu Vassili a cambiare idea all’ultimo momento: “Se vado al villaggio, non tornerò a Leros, mai più!” Il confronto con Vassili, si può immaginarlo, fu denso, a volte acuto, altre paternalistico. Alla fine Vassili si convinse, si convinse discutendo con Iannis, che la cosa non era possibile in quei termini. La discussione, le discussioni, si svolsero per la prima volta nella storia del reparto nella stanza degli infermieri ; Vassili seduto in una delle sedie rigorosamente riservate agli operatori, ed attraverso la porta a vetri, tutti avevano potuto vedere! Grazie Vassili: morte di un piccolo tabù.

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Continua…


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