Intisar Sharif Abdallah è una ragazza sudanese di vent’anni. Avrebbe commesso adulterio e, pertanto, lo scorso 13 maggio è stata condannata a morte, mediante lapidazione. Il tribunale penale di Ombada ha interpretato alla lettera il disposto dell’articolo 146 del codice penale nazionale, entrato in vigore nel 1991, e ha emesso il verdetto, stabilendo l’applicazione della pena capitale.
L’organizzazione Italians for Darfur ha lanciato un appello, per chiedere la sospensione della condanna. Una raccolta firme, attraverso il web, per salvare la vita della giovane donna, sostenuta e promossa in collaborazione con i più importanti organismi umanitari mondiali, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International (firma qui l’appello). Gli attivisti stanno anche cercando di comunicare con il presidente Al-Bashir, chiedendogli di intercedere presso il Tribunale.
Intisar, in un primo momento, ha respinto le accuse. Durante il processo, svoltosi nello stato di Khartoum, il tribunale non le ha fornito alcuna tutela o assistenza legale. A cominciare dalla presenza negata di un interprete, che avrebbe, invece, dovuto accompagnarla, non essendo l’arabo la lingua madre della giovane donna. Ma non è stato solo l’ordinamento giudiziario ad abbandonare l’imputata.
La sudanese avrebbe, infatti, subito torture e violenze fisiche anche dal fratello, il quale, dopo averla picchiata, l’avrebbe indotta a confessare il tradimento. Questa sua ammissione di colpevolezza, la sola prova con cui i giudici siano stati in grado di sostenere l’accusa, è bastata a porre fine all’intero procedimento.
Subito dopo l’emanazione della sentenza, la ragazza è stata trasferita in carcere, insieme con il figlio più piccolo, di soli quattro mesi, dove attende, ora, l’esecuzione dell’atroce condanna. Alcuni suoi familiari avrebbero espresso l’intenzione di ricorrere in appello, in quanto la sentenza di primo grado, stando agli standard internazionali, contrasterebbe, di fatto, con la normativa interna del Sudan e con la legge internazionale.
Le notizie che giungono da Ombada sono frammentarie, a causa della difficoltà di accedere agli atti processuali. Anche la scarsità di informazione sui tempi dell’esecuzione della sentenza rende complicata l’indagine e l’attività degli attivisti. Che, per l’ennesima volta, possono soltanto “fare rumore” attraverso il web e sperare che questo consenta di salvare la vita di Intisar.
di Emilio Garofalo
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e si dichiarano i veri credentii……Dio con qualsiasi nome lo si chiami non perdonerà Mai chi commette un simile crimine….Bastaaaaaaaaaaaa
Basta!
bastaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
E’ inaccettabile!!:((
Ciao Angela
sei tu di Posada e .. Como?
Pensate da esseri umani.
povere donne..
basta!!!!!!!
Che assurdità