Una vita da invisibili – Inchiesta sui rifugiati a Roma


Pubblichiamo l’inchiesta sui rifugiati a Roma che Frontiere News ha curato per Paese Sera (uscita in edicola nel numero di maggio 2012).

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Scappano da guerre, violenze, torture e persecuzioni. E arrivano soprattutto da Somalia, Afghanistan, Eritrea, Kurdistan, Etiopia, ma anche da Iran, Iraq e Birmania. Secondo gli ultimi dati della Caritas, sono circa 1.500 i rifugiati politici in lista d’attesa nella Capitale. Dalla burocrazia estenuante alla difficoltà di trovare un lavoro e una casa. Viaggio nei luoghi e tra i problemi di chi dovrebbe avere diritto all’accoglienza.

Si fa presto a chiamarli rifugiati politici. Al primo settembre 2011 la lista di attesa per l’ingresso nel circuito d’accoglienza dell’Amministrazione romana era di 1541 persone (dati Caritas). Una prima “scrematura” delle migliaia di persone che nel corso del 2011 avevano avviato le pratiche per la richiesta di accoglienza nella Capitale, molte delle quali in fuga dal Nord Africa in rivolta. Ma se nell’ultimo anno il numero delle domande d’asilo è notevolmente aumentato, sono state disattese pure le stime allarmistiche di chi parlava di “tsunami umano”. Semplicemente Roma conferma il trend mondiale, per cui la maggior parte dei rifugiati, spesso invisibile alle statistiche, preferisce rimanere nelle aree urbane piuttosto che nei campi profughi.

Ma chi sono, aldilà dei numeri, gli stranieri che a Roma ogni anno richiedono asilo politico? «Si tratta principalmente persone che scappano da guerre, violenze, torture e persecuzioni. Provengono soprattutto da Somalia, Afghanistan, Eritrea, Kurdistan, Etiopia, ma anche da Iran e Iraq», spiega Berardino Guarino, responsabile dei progetti della fondazione Centro Astalli, tra le realtà più importanti nel panorama cittadino per quanto riguarda l’assistenza ai rifugiati.

La strada per ottenere l’agognato status è lunga e tortuosa e «non sempre le direttive europee vengono rispettate», afferma Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci. «Alla frontiera in certe circostanza la polizia fa quello che vuole. Stiamo seguendo, ad esempio, il caso di due richiedenti asilo presi letteralmente a legnate dalla polizia di Fiumicino».

Questa e tante altre storie le trovate su Ripartire

Una volta superata la frontiera gli “aspiranti rifugiati” devono affrontare una burocrazia infinita. Per la richiesta di asilo è indispensabile un domicilio, un indirizzo che sarà poi riportato sul permesso di soggiorno. «Ti chiedono il recapito… è assurdo!», afferma Abu Gazem Mohamad, a capo dell’Arci Darfur e rifugiato in Italia dal 2002. «Quando arrivi a Roma non sai dove andare. Come puoi avere un recapito?»

Dopo che i documenti sono stati consegnati alla Questura, la polizia invia i dati del rifugiato al ministero dell’Interno, che verifica se l’Italia, in base al Regolamento di Dublino II, può accettare o meno la domanda in questione. E qui entra in gioco il secondo grande blocco burocratico, denunciato ampiamente anche dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, secondo il quale l’applicazione del Regolamento di Dublino può seriamente ritardare la presentazione delle domande e far sì che le richieste non vengano mai prese in considerazione. Se fanno richiesta d’asilo in Italia, infatti, devono poi rimanere qui. Ma la maggior parte di loro transita in Italia solo per aspirare a una sistemazione nel nord Europa.

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Dove non riesce la burocrazia ci pensa la crisi. «Da oltre un anno l’Italia vive una stagione economica che non facilita chi cerca di rifarsi una vita nel nostro Paese», spiega sempre Guarino. «La permanenza nei centri di accoglienza continua ad allungarsi. Nel 2011 solo pochi ospiti dei nostri centri hanno lavorato con continuità. Questa situazione rende quasi impossibile ottenere un alloggio: per prendere un appartamento in affitto sono richieste garanzie economiche solitamente irraggiungibili per un rifugiato».

Così proliferano le strutture abbandonate che si trasformano in dimore per chi ha meno “fortuna”. Da quelle storiche, come i magazzini dismessi della stazione Tiburtina ben presto ribattezzati Hotel Africa (che fino al 2005 hanno visto un flusso di oltre 1500 tra sudanesi, eritrei ed etiopi) a quelle più recenti, spesso legate ai movimenti per il diritto alla casa. Come a Casal Boccone, dove un centro anziani d’eccellenza ceduto dal Comune a una società del gruppo Ligresti per farne un polo residenziale di lusso, è diventato la dimora per 150 famiglie di svariate etnie e contesti sociali differenti, che convivono pacificamente e in armonia. Tra italiani, sudamericani, sudanesi ed egiziani c’è anche il birmano David Eng Khan Mang, che ha vissuto sulla sua pelle le conseguenze dell’essere sostenitore di San Suu Kyi. Arrivato nel 2002 in Italia per sfuggire al carcere, ha ottenuto lo status di rifugiato solo due anni dopo, a seguito di una trafila estenuante. Dopo anni di pellegrinaggi tra Caritas, Termini e il dormitorio delle suore di Madre Teresa di Calcutta adiacente la stazione, aveva trovato lavoro in un albergo, con un discreto salario. Quando però si è infortunato, con un’invalidità civile al 75%, ha perso tutto e si è dovuto “inventare” un posto dove vivere con la moglie e il figlio di sei anni, appena arrivati dalla Birmania. Adesso condividono l’ex clinica con le altre famiglie di Casal Boccone e nel frattempo David ha iniziato a studiare economia all’Università di Roma Tre.

Vita comune anche in un’ex fabbrica ribattezzata Metropoliz: uno spazio di grandi dimensioni dove gli attivisti per la casa del Blocco precario metropolitano hanno creato le condizioni per far vivere insieme i rifugiati (principalmente sudanesi, in questo caso) e tante altre famiglie in crisi abitativa. Qui ha ottenuto la residenza Abu Gazem Mohamad, che sembra apprezzare in modo particolare la tranquillità che si respira al civico 913, in quel punto dove la Prenestina smette di essere un’arteria vitale del traffico cittadino e viene “dimenticata” anche dai binari del tram.

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Altri luoghi di vita dei rifugiati s’intrecciano con la vita pulsante della città. È il caso del centro Ararat, a 20 metri dall’eleganza delle mostre del Macro, nell’ex Mattatoio, e a pochi passi dal dinamismo della movida testaccina. Qui una sessantina di esuli curdi, per lo più in fuga dalla Turchia perché vicini al Pkk o per aver disertato il servizio di leva obbligatorio («ci avrebbero costretto a combattere contro il nostro popolo»), vivono in un piccolo prefabbricato di due piani. «È davvero difficile trovare lavoro», racconta uno dei più giovani, che viaggia per l’Italia alla ricerca di un posto in qualche negozio di kebab. «Alla fine, però, torniamo sempre qui, dove possiamo farci compagnia bevendo del té insieme o giocando a dama a backgammon».

A poche centinaia di metri dai curdi dell’Ararat vivevano gli afghani della stazione Ostiense, resi celebri anche fuori Roma dalla giornalista Carlotta Mismetti Capua che ha raccontato la loro storia sul gruppo Facebook “La città di Asterix” e nel libro Come due stelle nel mare. Ma quel famoso binario 15 occupato dagli afghani è stato smantellato in vista di Italo, il treno ad alta velocità che farà concorrenza a Trenitalia. Ora sono stati spostati in una tensostruttura a Tormarancia, dove finalmente hanno bagni e un sistema fognario. «Rimane il problema di un approccio estremamente assistenzialistico», spiega Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15. «Dormono lì ma durante il giorno sono costretti a una tristissima via crucis per la città, come se fossero un gregge al pascolo».

Secondo Alì Moussa, eritreo mediatore presso l’Ufficio immigrazione del Comune di Roma, un equilibrio tra le esigenze istituzionali e la necessità di fornire ai rifugiati un modo per ricostruire dignitosamente un progetto di vita è possibile. E l’impegno del Campidoglio non andrebbe demonizzato: «Il Comune gestisce più di venti strutture tra centri d’accoglienza, asili nido e altre realtà che si occupano di attività sanitarie e scolastiche in maniera piuttosto soddisfacente. Il vero problema è che i rifugiati, soprattutto gli ultimi arrivati, non conoscono la situazione sociale e lavorativa dell’Europa; il contrasto tra aspettative e realtà è immenso». E rischia di creare ancora più emarginazione.

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SENZA RITORNO – Da Istanbul a Testaccio

l suo negozio di orologi al Gran Bazar di Istanbul era una tappa obbligatoria per turisti e piazzisti di mezzo mondo. Guadagnava più
di mille dollari al giorno, poteva permettersi di regalare alla sua famiglia vacanze a Dubai e un appartamento con vista nel lussuoso quartiere di Beyoglu.
Fino a una sera di due anni e mezzo fa, quando decise di ospitare due vecchi amici della sua regione, Urfa. Non due amici qualsiasi, ma due membri del Pkk, il partito rivoluzionario curdo in lotta contro le politiche di Ankara. I movimenti dei due venivano controllati da tempo dai servizi segreti ed è stata la chiamata di un conoscente a salvarlo dall’arresto: «Lascia tutto e scappa, la polizia sta arrivando a casa tua».
Oggi Hussein, 39 anni, vive a Testaccio, nei pressi dell’ex Mattatoio, insieme ad una trentina di altri rifugiati curdi. Vende per pochi centesimi tazzine di tè ai connazionali. «È l’unico modo per tenersi occupato», racconta dopo averci chiesto con insistenza di ascoltare la sua storia. Scappato da Istanbul, ha percorso a piedi Bulgaria, Romania e Ungheria. «Nel frattempo la polizia requisiva tutti i miei
beni e la mia famiglia veniva buttata in mezzo a una strada». Superata l’Austria, Hussein raggiunge Roma. «Sono tutt’ora in attesa dei documenti e vivere senza poter lavorare è davvero deprimente. Due mesi fa un ragazzo si è suicidato e anche a me è capitato di pensare di farla finita». Il non avere un lavoro e il vivere nella precarietà sono «qualcosa di cui mi vergogno e non ho nemmeno più il coraggio di parlare con i miei bambini». Intanto il riconoscimento di rifugiato politico tarda ad arrivare, «ma una volta che avrò quel documento mi aprirò un negozio di kebab. Ho chiuso per sempre con la Turchia, ho solo voglia di ricominciare una nuova vita a Roma».

A cura di Francesco Caselli, Joshua Evangelista, Valerio Evangelista e Luca La Gamma. Foto di Valerio Polici

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