Roma Est è un museo a cielo aperto da salvaguardare

Nel 2009 la Giunta Alemanno decide di costruire tremila appartamenti a Roma Est, nel Comprensorio Casilino, area vincolata dal MIBACT. Un gruppo di associazioni capisce che per contrastare la speculazione edilizia è fondamentale investire sulla conoscenza e sul senso di appartenenza al territorio di coloro che lo vivono. Nasce così l’Ecomuseo Casilino, un progetto che va oltre l’idea tradizionale di museo e che si fonda sulle esperienze vive delle comunità dei quartieri di Roma Est. Partendo da un presupposto: sono quartieri internazionali, non multietnici. E il loro valore intrinseco si basa proprio su questa differenza, dalla quale poter ripensare cultura e musealizzazione in questa fase incerta.

Intervista a Claudio Gnessi a cura di Luca La Gamma

Roma, si sa, è una città ricca di storia, cultura e archeologia. Ogni anno quasi dieci milioni di turisti affollano le vie del centro per godere delle meraviglie che la Città eterna offre. Non molti turisti sanno, però, che c’è tantissimo da scoprire anche oltre le Mura aureliane, seppur gentrificazione e corsa al cemento ne mettano costantemente a rischio la sopravvivenza.

Ad esempio, dal 2009 esiste un museo a cielo aperto, situato nel quadrante est della città, nell’area che si estende dal parco di Centocelle, sulla Casilina, fino a Villa Gordiani, sulla Prenestina, e che include le vie di Tor Pignattara, Acqua Bullicante e Tor de’ Schiavi.

È l’Ecomuseo Casilino “ad Duas Lauros”, un progetto in cui associazioni locali collaborano per promuovere il territorio e riscoprirne il patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale, partendo dall’idea che una memoria condivisa si costruisce solo con l’integrazione e il dialogo tra le comunità diverse che popolano il territorio.

In altre parole, si basa sulla musealizzazione diffusa del territorio, che è inteso non solo come paesaggio, ma anche come tessuto di relazioni tra i suoi abitanti, culture, memoria ed eredità storica. Il contesto è quello del V Municipio: un crogiolo di lingue madri, un patrimonio culturale in continua evoluzione che, purtroppo, viene generalmente raccontato solo con lo sguardo cinico dei giornalisti che vedono solo scontri e disagi.

Eppure questo progetto ci fa capire che è possibile, tramite passeggiate e laboratori, scoprire una Roma che non c’è più e un’altra che si va formando. Si può constatare con i propri occhi come è cambiato il territorio stesso nel tempo, abbracciando il multiculturalismo presente, che è vivo e parte integrante di un contesto che ancora oggi troppi fanno fatica a comprendere.

I numeri dei visitatori e dei partecipanti alle iniziative diffuse premiano questo sguardo, che in un momento storico di emergenza post-pandemica potrebbe essere esportato anche in altri contesti. Per capire la “lezione” dell’Ecomuseo Casilino, abbiamo chiesto al suo presidente, Claudio Gnessi, di raccontarci la genesi del progetto e qual è la sua idea di integrazione tra comunità.

Com’è nata l’idea dell’Ecomuseo Casilino?

Nasce nel 2009 come ipotesi di lavoro non formalizzata. In quel periodo c’era un piano del comune di Roma [giunta Alemanno, ndr] per la costruzione di tremila appartamenti che si sarebbero estesi da via dell’Acqua Bullicante a Centocelle, nel quadrante est della città. Questo progetto avrebbe avuto impatto su un territorio che era vincolato dal Ministero dei Beni Culturali. L’Ecomuseo Casilino “ad Duas Lauros” nasce quindi per contrastare la speculazione edilizia. La vertenza venne seguita da diverse associazioni locali, molto attive su tutto il territorio e orientate nella stessa direzione. Eravamo determinati a contrastare la speculazione, con la consapevolezza che se fosse partito questo progetto, sarebbe scomparsa una fetta di territorio importante dal punto di vista archeologico, storico e paesaggistico. Così decidemmo di non limitarci a protestare, ma di presentare una proposta viva. Abbiamo deciso di creare un Ecomuseo per gestire attivamente la complessità del territorio del quadrante (che include le zone di Tor Pignattara, Gordiani, Centocelle, Pigneto e Casilino 23). Per intenderci, c’era da gestire molto di più di un parco archeologico ed era necessario anche fare una pianificazione urbanistica. Abbiamo iniziato a ripensare il territorio come uno spazio museale all’aperto; usiamo ogni aspetto del territorio come parte della collezione e l’intento è quello di mettere in collegamento diversi ambiti di patrimonio, gestendone la complessità a partire dal modo con cui gli abitanti lo percepiscono. Il patrimonio, quindi, è inteso come elemento su cui fare leva per costruire un nuovo modello di territorio.

Ecco, chi decide cos’è un patrimonio?

La popolazione è l’agente diretto nell’individuazione di cosa è il patrimonio. In un contesto ecomuseale, tutti sono protagonisti nella costruzione del patrimonio. Le singole persone che vivono nel territorio possono essere soggetti attivi della catalogazione e individuazione delle risorse culturali, dei temi di ricerca e fruizione. La proposta fu portata all’attenzione dei cittadini tramite eventi pubblici e iniziammo a fare le attività classiche di un Ecomuseo: stilare il progetto, ascoltare le persone, verificare che le intenzioni dei proponenti fossero valide e accettate dalla popolazione stessa. Fatti questi passaggi, consolidammo la proposta con delle linee guida e sviluppammo il progetto attraverso dei laboratori che coinvolgevano la cittadinanza. I laboratori vengono sviluppati con le persone, nelle scuole, in strada, ovunque ci sia una comunità e un luogo gestito da qualcuno: centro anziani, centro scout, chiese, luogo di culto, centro culturale. A ognuna di queste realtà si propone l’idea, si verificano i feedback, si sviluppa e si integra ciò che si è già fatto. In questo modo il territorio si popola di patrimoni sempre diversi e aggiornati. La cultura diventa uno strumento di pianificazione del territorio.

Quali sono le principali attività che portate avanti?

Noi siamo principalmente un ente di ricerca. La ricerca consiste nell’individuare le fonti: andiamo a rintracciare mappe catastali, foto d’epoca, libri, passaggi di narrativa per effettuare delle narrazioni di questo territorio che ci fanno individuare le risorse culturali del territorio stesso.

Ti faccio un esempio: studiando gli approfondimenti archeologici fatti negli anni ‘90, abbiamo appreso che a piazza della Marranella anticamente c’era un tempio dedicato a Ercole. La scoperta diventa il modo per ricostruire un contesto urbano profondamente trasformato. Si tratta di una risorsa immateriale, una memoria, un “fantasma”, che però colleghiamo a diversi altri livelli di senso che restituiamo nella narrazione a cittadini e ai visitatori. E il luogo si arricchisce di nuove sfumature, significati, vibrazioni. In questo caso il “la” è una vicenda antica, in cui sono le fonti tradizionali (libri, ricerche, cataloghi) a darci la direzione.

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Nel caso in cui parliamo di cose più vicine nel tempo, per esempio le lotte e i movimenti sociali, sentiamo gli anziani che facevano parte dei collettivi dell’epoca e, incrociando queste fonti orali con le fonti scritte, ricostruiamo una storia a molteplici livelli, in cui “ufficiale” e “non ufficiale” si mescolano dando una profondità diversa ai luoghi. Questa ricerca antropologica, storica e urbanistica la portiamo avanti costantemente.

Una ricerca multidisciplinare.

Abbracciamo la storia, l’urbanistica, l’arte contemporanea, le forme del sacro. È una ricerca multidisciplinare che restituisce un prodotto interdisciplinare, perché ogni luogo diventa un prisma che irradia diverse letture possibili. Quando, ad esempio, individuiamo in un luogo come la piazza della Marranella, una fonte archeologica, la piazza che è già un luogo dell’anima del quartiere per altre ragioni, si arricchisce della dimensione archeologica, sino ad allora largamente non conosciuta dagli abitanti. Quel luogo diventa un punto sulla mappa in cui si incrociano sette otto punti di vista diversi. Quello che produciamo non è mai un catalogo dei beni culturali inteso come lo intendiamo qui in Italia. Facciamo una catalogazione completamente differente dove ha poco senso riferirsi a un “bene” come materiale, immateriale, archeologico, storico etc. Ogni luogo qui è multiplo per natura e l’unico approccio possibile è, quindi, quello interdisciplinare.

Tutta la nostra ricerca viene poi narrata e tramandata. Il racconto lo facciamo attraverso l’attività dei laboratori, per vedere il feedback della popolazione e successivamente capiamo la modalità con cui possiamo integrarla. Creiamo una narrazione esposta all’utenza e diffusa attraverso seminari, convegni e visite guidate.

Tra le tante iniziative che avete sviluppato sul territorio, ci sono le passeggiate per il quartiere e i pranzi nei ristoranti della zona. Che risposta avete avuto su questo tipo di iniziative? Chi sono generalmente i partecipanti?

Il momento pop dell’Ecomuseo è quello della visita guidata, è la punta dell’iceberg. La passeggiata per il territorio ci garantisce dei feedback reali. A questa sommiamo seminari, laboratori e convegni per avere un dato di risposta concreto sull’interesse del cittadino e del visitatore. Riportando gli ultimi dati, quelli del 2019, basti pensare che abbiamo avuto 6mila visitatori. Un terzo dei musei italiani mediamente non va oltre i mille visitatori l’anno. Di questi 6mila visitatori, il 70% sono residenti dei quartieri dell’Ecomuseo casilino (Centocelle, Pigneto, Villa Gordiani, Quadraro Vecchio), il 20% vengono da altre parti della città di Roma e il 5% viene da fuori Roma, e sono per lo più turisti che passano in zona e vengono intercettati tramite la comunicazione.

E poi ci sono i laboratori. Come vengono organizzati?

I laboratori sono tutti basati sulla metodologia della geografia emozionale. Si lavora con il principio di dare un’emozione, un senso, un significato ai luoghi proposti dalle persone che nella somma dei punti di vista diventa un significato collettivo. Per prima cosa dobbiamo capire il senso dei luoghi, ben prima di creare la nostra narrazione: che storia ha il quartiere, quali sono le cose che interessano e piacciono. Capiamo il senso dei luoghi prima della narrazione, costruiamo i luoghi dell’anima, e successivamente procediamo con l’approfondimento dei singoli aspetti partendo da ciò che è stato individuato. Infine raccontiamo pezzi di patrimonio e storia. Esploriamo i luoghi individuati e proposti dalle persone. Dopo questo passaggio, procediamo con l’esplorazione sul territorio, seguendo i punti che sono stati individuati, con il fine di aggiungere nuove informazioni patrimoniali. In ultimo generiamo una nuova mappa che integra il punto di vista personale con il punto di vista che si è consolidato nel tempo e nella ricerca. Vengono fuori delle mappe di comunità, sempre diverse tra loro. Dopo aver fatto queste ricerche e gli approfondimenti su storia, archeologia, arte, si costituisce la mappa di comunità su cui poi si basano i tour. I laboratori sono una modalità utile per intercettare il punto di vista del singolo, lo integriamo con la ricerca, lo sviluppiamo e produciamo gli esiti. Tutto ciò viene fatto con bambini delle elementari e delle medie, studenti liceali, universitari e cittadini adulti. Il metodo può essere declinato per tutte le fasce d’età.

Le vostre attività sono orientate a promuovere i quartieri, ma anche a integrare e far conoscere le molteplici culture presenti sul territorio.

Certo, le diverse culture sono parte integrante del patrimonio. Questa è la cosa bella! Non possiamo parlare esclusivamente del patrimonio archeologico, dimenticando completamente che c’è un patrimonio pazzesco prodotto dalle comunità d’origine straniera. Siamo molto attenti a questi aspetti: luoghi di culto, lingue madri, tradizioni, eventi festivi laici e religiosi. Il riconoscimento che ha avuto l’Ecomuseo nel 2019 da parte della Regione Lazio ha messo le risorse che abbiamo individuato e presentato su un unico piano: quello del patrimonio condiviso di un territorio dalle diverse comunità. E così ora sono patrimonio di interesse regionale, per esempio, le tanto vituperate moschee. Passare dal riconoscimento dei cittadini a quello istituzionale è un fatto importante, perché sposta l’asse dal piano localistico a quello pubblico e quindi generalizzato.

Tra i quartieri coinvolti dall’Ecomuseo casilino, c’è anche Tor Pignattara, da sempre una zona “chiacchierata” dove innumerevoli culture coesistono. E dove tu hai casa. Ci racconti com’è vivere oggi in un quartiere che troppi romani continuano a considerare “insidioso”?

I conflitti, purtroppo, esistono da sempre su tutto il territorio. In una realtà come quella di Tor Pignattara è più facile evidenziarli a causa delle diversità sociali e culturali, che sono complesse e di difficile sostentamento se non si hanno strumenti di lettura e interpretazione. È facile cadere nelle trappole di luoghi comuni e pregiudizi, che generano i conflitti. È un circolo vizioso e non se ne esce, specie se ci mettiamo il carico da novanta dei media che non approfondiscono mai la realtà, ma sono i primi a narrare seguendo le linee dei luoghi comuni.

Come andrebbe raccontato?

Quando vivi in un quartiere particolare come Tor Pignattara, devi sforzarti di riportare quello che da tutti è considerato come eccezionale in un’ottica ordinaria. Molte persone, così come le istituzioni, non riescono a ritenere ordinaria una situazione di questa complessità. L’intreccio di diverse tradizioni culturali, lingue madri, credi, modi di pensare, sono intrecci ordinari nel mondo contemporaneo. Non è straordinarietà; straordinario è il territorio che si è mantenuto intatto come era 100 anni fa. Quello è il pelo dell’uovo, non è certo il multiculturalismo presente a Tor Pignattara. Questa ordinarietà non riesce a essere compresa, perché non vengono neanche messi in campo gli strumenti per poterla gestire. Gli esseri umani, senza distinzione alcuna di genere o provenienza, sono capaci delle cose migliori e delle cose peggiori. Genere e provenienza non connotano il valore di quello che viene fatto. Una cazzata è italiana come cinese. Nella dinamica di quartiere, invece, è più facile che l’origine del peccatore qualifichi il peccato stesso: in questo scatto in avanti si annida il razzismo. Queste conflittualità esistono, ma si poggiano su sciocchezze e luoghi comuni che sono duri a morire. Ma dall’interno del quartiere il problema non è percepito. Non ci sono lotte tra comunità. Tor Pignattara è un grosso condominio in cui i vicini vengono da tutte le parti del mondo. Possono capitare delle incomprensioni, ma il condominio non viene messo a fuoco e fiamme, cosa che è avvenuta in altri territori.

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Esiste una visione comune del quartiere?

Il senso della visione comune è dato dalle iniziative che tante realtà diverse, che viaggiano su binari paralleli, sviluppano con la finalità comune che è, appunto, quella di riportare nell’ordinarietà quella che viene percepita come straordinarietà. Ci sono associazioni straordinarie qui, noi siamo una delle tante in tal senso, abbiamo il merito di occuparci di qualcosa che prima non era nell’agenda di nessuno, declinandolo però in questa prospettiva.

Il fatto che il quartiere è l’unico dove si parlano dodici lingue madri differenti rende il quartiere internazionale e non multietnico, deve essere motivo di orgoglio. Qui c’è un distillato delle culture del mondo. Questo aspetto, nel 2020, in un mondo globalizzato, viene ancora percepito come straordinarietà e non ordinarietà. E l’ordinario vive nelle relazioni tra comunità, immaginari e luoghi. Ecco perché portiamo i ragazzini a conoscere la moschea, affinché i bambini italiani di fede cattolica possano capire la cultura e la religione dell’amichetto bangladese. Ed ecco perché, allo stesso modo, portiamo nella chiesa i bambini i cui genitori sono arrivati dal Bangladesh. Lì ti rendi conto di quanto sia importante favorire l’integrazione partendo proprio dai bambini. Portare le persone nei luoghi in cui la cultura si manifesta nella sua specificità, cambia la relazione tra le persone. Ma anche quando portiamo gli anziani a visitare le moschee, ad esempio, succede lo stesso. Conoscere, per comprendere e accogliere: inserire azioni ordinarie anche se parliamo di culture che sono molto distanti tra loro, ma che condividono lo stesso territorio.

Una risposta al razzismo: vi battete per contrastare l’ignoranza in tempi di populismi, slogan d’odio e intolleranza. Secondo la tua personale esperienza, quanto c’è ancora da lavorare per far integrare lo straniero in una città come Roma?

Non va integrato lo straniero nella città di Roma, ma bisogna favorire l’integrazione dello straniero nella città di Roma e viceversa. L’integrazione è un movimento biunivoco, non è univoco. Il corpo estraneo che viene incluso nel corpo preponderante e ne assume le caratteristiche e la valorizzazione si chiama assimilazione, non è integrazione. L’integrazione è il momento in cui si stabilisce nella diversità un dialogo. È giusto che lo straniero continui a parlare la propria lingua madre e anche l’italiano, così come sarebbe giusto che anche gli italiani iniziassero a parlare un po’ di cinese. È cambiato il mondo, partire da un punto di vista di supremazia localista dovuta al fatto che io vivevo il territorio prima di te, è un punto di caduta che non regge più nel tempo. Non a caso chi è marcatamente razzista, si muove rivendicando le proprie regole e criticando usi e costumi altrui. Il razzismo degli altri non è migliore o peggiore del nostro. Non escludo che in Arabia Saudita possa esserci razzismo nei confronti degli europei, probabilmente ci sarà, ma non per questo devo professarlo anche io. È tutto sbagliato da questo punto di vista.

E a Tor Pignattara?

L’attività che facciamo con l’Ecomuseo è quella di normalizzare questi aspetti, cercando di trasformare lo scontro in dialogo e nel confronto “one to one”. Il razzismo che c’è a Tor Pignattara è un razzismo molto particolare. Ci sono razzisti ignoranti, che realmente non sanno neanche di cosa stanno parlando, ma quelli neanche li considero. Ma a parte loro, le dinamiche di intolleranza e conflitto sono estremamente sfumate nel territorio e per lo più sono legate a delle dinamiche specifiche tra determinate comunità. Il livello di diffidenza nei confronti dei cinesi, ad esempio, non tracima mai verso il razzismo, perché il cinese non si vede e non si sente. Il bangladese è molto più presente e appariscente e quel minimo di distanza viene rimarcata sistematicamente, ma non sfocia mai in razzismo o ritorsioni. La marcatura forte razzista sta nei comportamenti, e questi non si percepiscono mai. Poi, chiaramente, parliamo sempre di persone – i razzisti – che hanno strumenti limitati di comprensione e mentalità molto ristrette.

Qual è la risposta dell’Ecomuseo Casilino a queste dinamiche?

La sfida dell’Ecomuseo Casilino e di molte associazioni con cui collaboriamo è quella di aumentare le competenze e potenziarle. Ad esempio, se la stragrande maggioranza delle persone non arriva a comprendere che in una moschea puoi entrare, assistere alla preghiera, parlare con l’Imam e con i fedeli, non miglioreremo mai come esseri umani. Allo stesso tempo, viceversa, se un bangladese o un induista non percepisce la libertà di poter entrare in un luogo di culto cattolico, per andare a vedere l’architettura o seguire una messa pur non professando quella fede, abbiamo un problema. Su questa quotidianità cerchiamo di costruire delle relazioni positive che, credimi, sono possibili.

15 ottobre 2019, data importante: l’Ecomuseo Casilino viene riconosciuto di interesse regionale e inserito nell’organizzazione museale del Lazio. In qualità di presidente dell’associazione, quanto è stato emozionante aver ottenuto questo riconoscimento? 

È stata un’emozione grandissima, ma questo riconoscimento era alla base di quando siamo partiti dieci anni fa proponendo l’Ecomuseo. Dieci anni fa si è partiti dicendo: “Ok, lo facciamo, ma deve essere riconosciuto dalla Regione Lazio”. Grazie alla rete degli Ecomusei del Lazio [Agro Pontino, Litorale Romano, Frosinate, ndr] che si sono animati e mossi per far promuovere l’approvazione di una legge regionale sugli Ecomusei, arrivata nel 2017, abbiamo ottenuto regolamenti e riconoscimenti ufficiali. I regolamenti verranno sviluppati nel prossimo futuro dalla Regione Lazio per fare l’accreditamento a essere riconosciuti Ecomusei della Regione Lazio ogni anno; questo è stato un passaggio fondamentale e importantissimo: è stato il riconoscimento dell’esistenza di un’istituzione museale territoriale.

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Qual è importanza effettiva, al di là del titolo?

Oltre a riconoscere l’Ecomuseo di interesse regionale, la legge è importante perché riconosce l’Ecomuseo come ente museale territoriale. Questo è un passaggio fondamentale, l’associazione diventa ente gestore di un museo e un domani potrà essere gestito da un’altra comunità. È lo sviluppo di un piano istituzionale dell’attività ecomuseale che non è più un semplice progetto associativo, perde anche la connotazione privatistica. Diventa un fatto pubblico. È fondamentale questa cosa: l’Ecomuseo Casilino è un fatto pubblico. L’inserimento nell’organizzazione museale regionale comporta la definitiva accettazione della narrazione alternativa che tutti noi abbiamo sempre portato avanti dal 2009, ovvero che questo territorio non è terra su cui venire a costruire, ma area di importanza regionale da tutelare. È il riconoscimento istituzionale di una narrazione, partita dai cittadini, consolidata in una progettualità e sviluppata nel corso del tempo attraverso la ricerca e l’attività con altri cittadini e associazioni, migra dal basso verso l’alto e viene ufficializzata. Questo è un passaggio importantissimo per tutto il territorio.

Quali sono i prossimi passi per l’ecomuseo? A cosa state lavorando?

Concretamente stiamo lavorando a tre punti: il primo è l’aumento sensibile della visibilità a livello europeo dell’Ecomuseo. Attraverso una serie di bandi che abbiamo vinto, stiamo iniziando a esportare il modello fuori dai confini locali e nazionali. Siamo stati riconosciuti da un progetto promosso dall’Unesco per il patrimonio immateriale come buona pratica europea di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio immateriale (storia, memoria, narrazione, tradizioni ecc). Adesso svilupperemo una ricerca sulle strade consolari europee – Casilina e Prenestina nel nostro caso – e il terzo passo sarà quello di creare un sistema digitale di catalogazione aperto ai cittadini, in modo che chiunque possa autonomamente proporre le proprie risorse culturali direttamente sulla piattaforma.

Il secondo punto riguarda la ricerca: stiamo lavorando a ricerche funzionali alle pianificazioni. Ad esempio, la ricerca archeologica dell’area della Prenestina potrebbe tornare utile al forum territoriale per richiedere il vincolo dell’area dal punto di vista archeologico. Lo stiamo facendo anche su altre zone. Facciamo ricerche puntuali per ricostruire il tessuto archeologico, storico e culturale delle vie consolari. Queste ricerche sono funzionali per tutelare il territorio archeologico della città. La ricerca stessa è orientata alla pianificazione e all’implementazione di quello che già abbiamo. Attualmente la stiamo sviluppando nei quartieri in cui stiamo approcciando in questo periodo, che sono Centocelle e Gordiani.

Terzo punto, stiamo lavorando moltissimo sulla progettualità legata all’era post-Covid. Siamo convinti che non si potrà tornare a vivere l’Ecomuseo come facevamo prima di questa pandemia; sarà difficile poter replicare determinati modelli di eventi, procedure e processi che avevamo pianificato. Stiamo lavorando per progettare nuove modalità di fruizione del patrimonio culturale, nuove modalità di partecipazione attiva da parte dei cittadini. Abbiamo sperimentato un modello di partecipazione totalmente digitale che ha portato a promuovere la votazione del nuovo nome di una piazza.

I tour virtuali funzionano?

Ce li hanno chiesti in tanti, quindi abbiamo messo in cantiere un progetto per svilupparli. C’è tanta richiesta anche da fuori regione, segno che c’è un pubblico in Italia che potremmo raggiungere.

Quali sono, invece, i progetti futuri con le comunità?

Nello specifico, stiamo lavorando a una ricerca sulle pratiche festive induiste, vogliamo fare una pubblicazione su questo tema perché potrebbe esserci la possibilità di portare il progetto in candidatura all’Unesco del patrimonio culturale immateriale. Sono feste induiste, ma fatte da comunità che vivono da talmente tanto tempo il territorio romano che ormai hanno elementi e caratteristiche locali. Si è creata una nuova pratica festiva religiosa con caratteristiche diverse. Prossimamente pubblicheremo un libro con l’Istituto Centrale del Patrimonio Immateriale sulle ricerche fatte su sport e attività ludiche dei migranti negli spazi pubblici. Per quanto riguarda i musei personali, abbiamo intercettato cinque donne immigrate dal Bangladesh scoprendo che costruiscono dei musei personali per mantenere una relazione positiva con il territorio da cui vengono. In ultimo, lavoreremo sul problema cronico, ossia l’assenza di mediazione da parte delle istituzioni. Presenteremo due casi di studio per far vedere come mancano assolutamente le istituzioni, creando effetti negativi importanti.


Profilo dell'autore

Luca La Gamma

Luca La Gamma
La sua formazione giornalistica inizia a 20 anni quando avvia una serie di collaborazioni con piccole testate romane occupandosi di sport e sociale. A 25 anni diviene giornalista pubblicista e a 26 decide di partire per la Spagna, tappa fondamentale per la sua crescita personale. Laurea in Lingue e letterature moderne alla Sapienza di Roma e in Editoria e giornalismo alla Lumsa di Roma. Attualmente consulente per la comunicazione in INPS. Viaggiatore, sognatore e amante della vita in tutte le sue sfumature, si identifica in Frontiere News perché è la voce fuori dal coro che racconta quelle storie che non vengono prese in considerazione dall’élite giornalistica.

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