Ogni anno, il 30 agosto, si celebra la Giornata Internazionale degli scomparsi. Più che una commemorazione, un momento di riflessione sul destino delle migliaia di persone che, nel mondo, sono state fatte sparire forzatamente, costrette ad un allontanamento coatto dalla loro terra e dai loro cari.
E anche ai familiari delle vittime, in occasione della ricorrenza, sono rivolti pensieri e riflessioni: non possono piangere la morte dei loro congiunti, non avendo certezza del loro destino e, allo stesso tempo, conducono un’esistenza angosciante, una prigionia emotiva segnata da una costante e speranzosa attesa.
Quest’anno, la giornata è dedicata alle recenti sparizioni a seguito della rivolta siriana e a quelle avvenute nei Paesi Balcanici tra il 1991 e il 2001. Un decennio, quest’ ultimo, segnato da duri conflitti bellici e da guerre civili intestine, oltre che da rivolte secessioniste. Sono trascorsi vent’anni dallo scoppio delle guerre e, ancora oggi, “più di 14mila persone mancano all’appello nei paesi dell’ex Jugoslavia”.
I dati, denunciati da Amnesty International in un rapporto diffuso ieri, confermano le avvenute atrocità in danno di quanti, arrestati durante i giorni degli scontri armati, non sono più tornati alle loro case. Una pratica che, nei dieci anni segnati dalla guerra, ha causato la sparizione (accertata) di 34.700 persone. Tra questi, dissidenti, oppositori politici, attivisti e prigionieri di guerra.
“La maggior parte delle loro famiglie aspetta ancora”, ha spiegato, a seguito della diffusione del report, Jezerca Tigani, vicedirettore responsabile del Programma Europa e Asia di Amnesty International. Aspre critiche si sono levate nei confronti dei Governi balcanici: quelli di Bosnia Erzegovina, Croazia, Macedoniam, Montenegro, Serbia e Kosovo sono stati accusati di inedia politica.
Una costante mancanza di volontà di indagare sul fenomeno e, dunque, di arginarlo. “Le vittime delle sparizioni forzate nei paesi dell’ex Jugoslavia appartengono a tutti i gruppi etnici. Sono civili e soldati, donne e uomini, bambine e bambini”. Un contesto in cui “l’assenza di indagini e processi per le sparizioni forzate e i rapimenti resta un problema grave in tutti i Balcani”.
Tra gli studiosi del fenomeno, c’è anche chi accusa i Paesi citati di essere “venuti meno all’obbligo legale internazionale di indagare e punire questi reati”. Un buon Governo dovrebbe, infatti, garantire la restituzione dei corpi, in caso di morte accertata, o accorciare il più possibile i tempi di indagine, offrendo anche, ai familiari delle vittime, “un’adeguata e concreta riparazione per il danno che hanno subito”. Ma nulla di tutto ciò è stato fatto dai Governi citati.
Poi, oltre alla questione balcanica, il conflitto in Siria: dal febbraio 2011, con l’inizio della primavera araba siriana, delle migliaia di oppositori arrestati dal Governo non si è avuta più alcuna notizia. E se in pochi sono stati rilasciati, dopo mesi di detenzione segreta e priva di diritti e tutele, la maggioranza dei dissidenti risulta ancora dispersa.
Gli atteggiamenti quotidiani del regime sono segnati da omertà e reticenza: le autorità siriane non hanno mai diffuso informazione sulla sorte dei prigionieri, costringendo le famiglie a triboli perduranti e insuperabili. Attraverso la testimonianza dei pochissimi superstiti del conflitto siriano, raccolta da Amnesty International, si è parlato, in seguito, di pessime condizioni di detenzione, segnate da torture e ogni genere di maltrattamenti.
Le sparizioni forzate sono tuttora considerate “il fiore all’occhiello” della famiglia al-Assad. Una pratica reiterata da decenni ma che, in realtà, altro non è che un crimine, riconosciuto dal diritto internazionale e perpetrato in danno della popolazione. Un crimine su cui ogni anno, il 30 agosto, il mondo continua a riflettere e a interrogarsi.
Emilio Garofalo
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