Israele, parlano gli ex-soldati: “Così calpestavamo i diritti dei bambini palestinesi”

“Ogni volta che provocavamo dei disordini poi prendevamo dei ragazzini arabi. Li prendevamo, gli puntavamo addosso le pistole e loro rimanevano lì, immobili, pietrificati. Loro ci vedono arrabbiati, capiscono benissimo che non ci importa nulla di loro”, Sergente della Brigata Kfir, Hebron 2006-2007.

Testimonianze agghiaccianti quelle raccolte da Breaking the Silence, un’organizzazione di veterani che hanno servito l’esercito di Israele fino alla Seconda Intifada. Hanno deciso di esporsi per raccontare la realtà quotidiana della vita nei territori occupati.

Negli ultimi otto anni sono state raccolte molte testimonianze da parte di ex soldati che hanno assistiti o partecipato a violazioni dei diritti umani nei territori occupati. La maggior parte di queste racconta di giustizia “sommaria”, soprattutto contro i minori, senza un’autorizzazione e senza il consenso dei tribunali militari (qui tutte le testimonianze).

Due mesi fa, un rapporto di un team di avvocati britannici, guidati da Sir Stephen Sedley e fondato dal Ministero degli Esteri inglese ha accusato Israele di una serie di violazioni riguardo alle leggi internazionali, soprattutto nei confronti dei bambini presi in custodia dall’esercito. Secondo questo rapporto, a spingere i militari ad agire così contro i bambini arabi è la profonda convinzione che dietro ad ogni bambino palestinese si nasconda un potenziale terrorista.

I soldati la raccontano in un modo diverso, parlano di “abitudine”, di essere stanchi di comportarsi senza umanità ma ammettono che bastava uno sguardo che non gli piacesse per colpire immediatamente.

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“Siamo entrati in una scuola e abbiamo arrestato tutte le persone tra i 17 e 50 anni. Quando i detenuti chiedevano di andare in bagno, i soldati li accompagnavano e poi li picchiavano, così senza ragione, e senza nulla che li legittimasse. Un arabo fu preso mentre era in bagno, picchiato, buttato a terra. Quell’uomo è stato picchiato senza una ragione, non era stato scortese né aveva in qualche modo provocato il soldato. Fu picchiato perché era arabo. Aveva forse 15 anni e non aveva fatto niente”, Sergente della Brigata Kfir, Safit 2009.

A fare da apripista la storia di Hafez Rajabi, un ragazzino che cinque anni fa è stato picchiato dagli uomini della Brigata Kfir. Una cicatrice sopra l’occhio destro è l’indelebile segno di quello che gli è accaduto il 28 agosto del 2007, quando dietro la casa di sua zia è stato picchiato per aver lanciato delle pietre addosso alle truppe. Per questo gesto è stato sbattuto violentemente contro lo spigolo di ferro della balaustra accanto alla porta di ingresso e poi trascinato per trecento metri, mentre gli veniva ordinato di confessare la sua colpa. Quello che Hafez ricorda è che era sicuro che lo avrebbero ucciso.

A salvarlo è un altro soldato. In realtà, mettendo a confronto le testimonianze del rapporto, fu un dottore ad ordinare al Comandante di fermarsi, dicendogli : “Tutto quello che stai facendo ora è creare un altro terrorista. Se io fossi un padre e ti vedessi fare questo a mio figlio, ogni momento sarebbe quello giusto per una vendetta”.

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Il rapporto di Sedley sottolinea quanto il rischio di abusi vada di pari passo in un sistema dove la giustizia dipende solo dalla forza militare. Un sistema che si basa su una spirale di ingiustizia che può essere invertita solo da Israele stessa, iniziando a vedere i bambini palestinesi come giovani vittime di un’occupazione incessante e non come potenziali terroristi.

 Ilaria Bortot

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