Libano, nella chiesa ricostruita su richiesta dei leader musulmani – foto

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testo di Ilaria Bortot – foto di Stefano Gnech

Gli occhi di Maria mi guardano incuriositi, due fari azzurri sotto il velo scuro. Insieme a lei Zainab, una bambina. Scattano foto, riprendono il prete ortodosso che rilascia l’intervista ai giornalisti presenti nella chiesa ancora da finire.

Siamo a Naffakie, a sud del Libano, nella provincia di Bint Jubair, dove grazie ad un progetto Cimic di UNIFIL è stata ricostruita la Chiesa ortodossa del paese.

Fin qui nulla di strano se non il fatto che a chiedere la ristrutturazione del luogo sacro non è stato Padre William ma il Muftar del villaggio, un paesino arroccato a maggioranza sciita.

L’edificio è stato ristrutturato e riportato alla sua architettura originale. Pietre a vista e altare in marmo, le icone dei santi ancora da ristrutturare. La Chiesa, costruita 140 anni fa, aveva celebrato la sua ultima messa nel 1973 e tra poco, finiti i lavori di ristrutturazione, inizierà a riprendere vita. I rapporti tra la comunità sono sereni, “Non sono solo il prete dei miei fedeli, sono il prete di tutti, anche dei musulmani – racconta Padre William – I rapporti tra i cittadini sono ottimi. Musulmani, cristiani, qui vanno tutti d’accordo“.

Viene in automatico chiedere cosa pensa di Israele, dietro la Blu Line che li divide ufficialmente esiste un rapporto che non è proprio diplomatico. La risposta di Padre William avvalora questa tesi, sono gli Hezbollah ad aver salvato il sud del Paese, Israele e il suo governo ad averlo rovinato. Non poteva essere più chiaro.

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Poco distante, la torre più alta indica il minareto, la torre della Moschea. Maria mi invita a visitarla, mi accompagna e in un mescolare di lingue mi mostra orgogliosa la piccola sala di preghiera del villaggio. La costruzione è abbastanza recente, un lampadario che sembra di cristallo scende fino a metà della stanza. Tappeti per terra, di colore rosso, intrecciati finemente da mani esperte. A lato, la libreria con diverse copie del Corano, “Kuran”, mi indica sorridente. Si inginocchia accanto a me e mi mostra come si prega, come appoggiare la testa. Mi fotografa compiaciuta, mentre mi indica le tende rosse scure che dividono la parte femminile. Sistema il mio hijab, ricavato con una semplice pashmina, e cerca di spiegarmi quanto quella Moschea sia importante per loro ma anche quanto è orgogliosa della Chiesa.

Le chiedo se ha sempre vissuto qui, se questa è la sua bait, casa. “Oui, maison. Bait, in english?”.

Guardandomi attorno, tra queste case rotte, rovinate, tra gli occhi azzurri di Maria e il cemento fresco della Chiesa di Padre William mi rendo conto di quanto il Libano abbia da offrire a chi, occidentale come me, come noi, mal comprende come tutto questo possa andare di pari passo. Integrazione, religione, culture, tutto diventa arricchimento e non motivo di disaccordo.

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Una donna velata e un prete ortodosso, l’orgoglio per la presenza dei giornalisti, la stima per i soldati italiani di UNIFIL, lo sfondo di un paese distrutto che vorrebbe solo poter ricominciare.


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