Padre Jean Baptiste Rutihunza: il “boia di Gatara” protetto dal Vaticano

Jean-Baptiste Rutihunza: ruandese, 63 anni, sacerdote cattolico. È accusato di aver redatto e fornito, ai paramilitari estremisti hutu, le liste di proscrizione durante i sanguinari giorni del massacro dei civili tutsi, operato nel 1994 in Ruanda. Liste sulle quali erano indicati anche nomi di bambini, e tra questi molti disabili, insieme con tutte le altre vittime del genocidio (alla fine, se ne conteranno più di 1milione). Padre Rutihunza vive a Roma, sotto la protezione del Vaticano.

La sua storia comincia, appunto, nel 1994. Il suo ruolo è quello di rappresentante legale del Centro Fratelli della Carità in un distretto di Nyanza, Gatara, una regione meridionale del Sudan. È il referente di una struttura che dà ospitalità a minori affetti da gravi patologie motorie. Molti sono gli stessi che finiranno sulle liste della morte che lui avrebbe, di lì a breve, redatto per i paramilitari impegnati nel genocidio sudanese.

Ha inizio la mattanza: mentre i miliziani scorrazzano nel Paese massacrando indiscriminatamente i civili di etnia tutsi a colpi di machete, spranghe chiodate e armi da fuoco, Jean-Baptiste Rutihunza, già al corrente dell’identità dei minori ospitati nel suo centro, redige le liste di proscrizione per consentire ai carnefici di individuare più rapidamente gli obiettivi.

Il genocidio prosegue, con atroce rapidità e inaudita violenza. Documenti ufficiali, facenti capo all’attività di indagine promossa dall’Onu, parlano, infatti, di “mille tutsi uccisi in venti minuti”. Un massacro perpetrato a ritmo serrato, lo stesso con il quale, stando alle denunce dei sopravvissuti, padre Rutihunza aggiorna le sue liste.

Una partecipazione attiva, dunque, quella del sacerdote che, con la collaborazione dell’allora sindaco di Kigoma, Cèlestin Ugirashebuja, non avrebbe risparmiato nemmeno i bambini disabili. Se erano di origine tutsi, andavano eliminati e, pertanto, si doveva fornire il loro nome ai massacratori hutu.

Le cifre parlano da sé: oltre 4mila bambini morti nel distretto di Gatara. Piccoli ai quali sarà “concessa” sepoltura in una fossa comune, rinvenuta anni dopo. Le indagini a carico del prete cattolico, supervisionate dall’Onu e per le quali è competente il Tribunale internazionale di Arusha, partono quando i superstiti, vincendo le paure di ritorsioni, decidono di uscire allo scoperto, raccontando i dettagli più cupi della vicenda.

Il corso della giustizia prende le mosse a seguito della liberazione compiuta dal Fronte patriottico ruandese. Dopo l’intervento dei militari, Rutihunza, il “segretario” dei carnefici, fugge in Congo. Intenzionato a riprendere la sua missione cattolica, fonda un convento dei Fratelli della Carità, una potente confraternita della chiesa di Roma. Fallito il progetto a seguito della distruzione dei campi profughi congolesi, ripara in Tanzania: siamo nel 1996. Passa un anno e la sua permanenza in Tanzania non può proseguire.

Rutihunza non ha scelta: si trasferisce a Roma e si rifugia in una struttura della confraternita, che lo accoglie non senza dubbi o remore relative alla sua figura e, specialmente, al suo trascorso. I mal di pancia interni agli ambienti vaticani presto diventano notizie nel mondo esterno. I giornali raccontano la storia del “boia di Gatara”.

La giustizia, intanto, va avanti. Piovono mandati di cattura e ordini di arresto. La competenza rimbalza tra più procure: dal Tribunale internazionale alla procura generale di Kigali. Dal governo ruandese all’Interpol. Ma se tante sono le autorità, solamente una, e uguale per tutti, è la richiesta: catturare il sacerdote ruandese. Per le sue responsabilità, certo, ma anche per le informazioni che potrebbe rivelare agli inquirenti.

Così, mentre gli uffici giudiziari di mezzo mondo lo inseguono, il prete lascia il Vaticano e scappa in Belgio. La sua fuga, però, durerà solo due anni. Torna a Roma. Trova lavoro: è il front man della reception della sede dei Fratelli della Carità. Un posto di lavoro sicuro, al sicuro delle Mura vaticane.

Il receptionist si dice, ora, fiducioso della giustizia italiana e non vuole essere rimpatriato in Sudan: sulla questione si pronuncerà la Corte d’Appello di Roma e, in caso di ricorso, la Cassazione. Dovessero i tribunali accogliere le richieste del governo africano, la parola spetterà, in fine, al presidente del Consiglio.

Le ultime dichiarazioni di Rutihunza, che attende, dunque, i tempi della giustizia italiana e internazionale, sembrano scontate: “Sono la vittima di una vendetta politica”. Il prete, colpevole per i tribunali, colpevole per le procure internazionali, colpevole secondo i testimoni sopravvissuti al genocidio, si dichiara innocente.

Emilio Garofalo

 

 


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