“Non sono stata io ad uccidere, no, ma dei malviventi. Il mio datore di lavoro ha continuato a premere affinché io confessassi. Persino i giornali arabi non sono stati imparziali ed hanno gonfiato le notizie. Riportando che io avrei assassinato la vittima, per poi bere il suo sangue”.
Una piccola borgata, a circa due ore di distanza dalla città di quartiere. Una minuscola casetta, un rifugio in legno che appare deserto quando i piedi incedono suo terrazzino. Una donna coperta da un velo marrone ed una veste viola viene accompagnata all’esterno dalla madre, mi invita ad entrare, poi si siede a gambe incrociate.
Lo sguardo della donna appare vuoto, perso in un luogo lontano, chissà dove. Forse sta ripensando alle tristi vicende degli ultimi otto anni. L’amara esperienza vissuta quand’era una lavoratrice in Arabia Saudita.
Si chiama Sulaimah binti Misnadi, 35 anni. Lo scorso 22 settembre è tornata nel suo villaggio natale, il borgo di Merati, a Puguk, nel quartiere Sei Ambawang di Kubu Raya, nel Borneo Occidentale. Dopo aver scontato una pena per qualcosa che non ha mai commesso, per otto lunghi anni.
In principio Sulaimah si recò in Arabia Saudita nel 2004. Tutto iniziò dall’incontro con un amico che le propose di lavorare là come domestica. E, poiché senza un’occupazione, Sulaimah si convinse e decise di accettare.
“Desideravo soltanto lavorare in quel momento,” afferma la donna, madre di due figli, con tono lento, ma molto profondo.
Così se ne andò da Kubu Raya, dirigendosi verso Surabaya. Si fermò per quasi un mese nella città di Pahlawan, poi raggiunse Jeddah, in Arabia Saudita.
In quella città di petrodollari, Sulaimah si occupava di una famiglia presso il distretto di Al Shafa. Tuttavia sfortunatamente, dopo appena due giorni di lavoro, la casa del suo datore di lavoro fu svaligiata. Uno dei membri anziani della famiglia, Zahbah Al Ghamdi, venne assassinato.
Sulaimah ha spiegato che l’uccisione è avvenuta per mano dei malviventi. Ha dichiarato di aver visto con i suoi occhi i ladri uccidere l’anziano signore intrufolandosi in casa. Addirittura, i delinquenti avrebbero provato a strangolarla. Ma tutte le sue spiegazioni non hanno mai avuto rilevanza. Nessuno le credeva.
“Sono stata accusata di omicidio. Mi hanno tagliato la lingua. Non sono stata in grado di parlare per tre giorni,” racconta la secondogenita di sette fratelli, con una pronuncia non più molto chiara.
Ben presto, dopo che le fu tagliata la lingua, sopraggiunse la polizia. Sulaimah venne portata in ospedale per dare dei punti di sutura. Purtroppo la persona che ha rovinato la lingua della donna non è mai stata processata dalle autorità arabe.
In seguito, Sulaimah fu interrogata dalla polizia. E continuò a respingere le accuse. Ma invece di ottenere protezione, ricevette addirittura intimidazioni. Nel bel mezzo del trambusto di cui lei era impotente, Sulaimah fu minacciata di stupro di gruppo.
“Mi minacciarono dicendo che mi avrebbero violentata. In più, sarei stata impiccata a testa in giù e gambe all’aria”, chiarisce quella donna riservata, gli occhi chiusi, rivivendo quanto sia stato doloroso e terrificante ricevere quelle minacce.
Ma Sulaimah non voleva ancora confessare. Perché non aveva mai commesso quell’omicidio.
“Non sono stata io ad ucciderlo, no, ma è stata opera dei ladri. L’ho affermato molte volte. Ma loro hanno continuato a premere perché io confessassi qualcosa che non ho mai fatto. Persino i giornali arabi non sono stati imparziali ed hanno ingigantito i fatti. Hanno scritto che avevo assassinato la vittima, per poi bere il suo sangue. Sono venuta a sapere tutto ciò quando un rappresentante dell’Ambasciata Indonesiana è venuto a farmi visita in carcere,” afferma Sulaimah, con un misto di rabbia e tristezza.
Al termine del processo, in ultima analisi, il tribunale la condannò per le azioni che non aveva commesso. Sulaimah dovette scontare una pena di otto anni, confinata in carcere.
“Il giudice non mi ha mai informato circa la decisione sentenziata. Tanto che non sapevo (a quel tempo) se sarei stata decapitata. Non c’è stata nessuna comunicazione. Non potevo fare nulla,” dice Sulaimah, che ha già dei nipoti.
Sebbene la situazione fosse quella, mentre era detenuta in prigione, la donna poteva ancora rallegrarsi di una cosa. Poteva infatti ancora comunicare con la sua famiglia, sebbene tutto dovesse avvenire segretamente, senza che i funzionari del carcere ne fossero a conoscenza.
“Ero grata del fatto di poter ancora contattare la mia famiglia al villaggio. Anche se in modo riservato, poiché tenevo il mio cellulare nascosto,” spiega Sulaimah, che non vive con il proprio marito.
Ha inoltre dichiarato che erano molti i lavoratori indonesiani detenuti in quel carcere. Alcuni si trovavano nel braccio della morte, accusati da un processo unilaterale, senza che la polizia araba avesse mai indagato per scoprire la verità.
“Molti di loro erano originari di Java. Con accuse di natura diversa,” afferma Sulaimah.
Alla domanda se la donna voglia ancora lavorare in Arabia Saudita, Sulaimah risponde di no. Sebbene gli stipendi lì siano alti, non vi tornerà mai più per svolgere una mansione.
“Ho imparato la lezione. Mentre lavoravo, il mio stipendio era di 150 Riyal. Ora probabilmente cercherò lavoro qui. È difficile, ma questo è il mio villaggio,” dichiara.
Zein Muksin, famigliare della donna, spiega che Sulaimah è una persona molto tranquilla. Non ha mai creduto che potesse commettere quell’omicidio.
“Sin dalla prima volta che ho ricevuto quelle informazioni, nel 2008, non sono mai stato convinto che Sulaimah avesse davvero fatto ciò che la gente asseriva. Perché conosco piuttosto bene la personalità di Sulaimah,” dice Zein, sempre presente ad ogni sessione di interviste alla donna.
Nel frattempo Sa’denah, 60 anni, madre di Sulaimah, dichiara di essere felice che sua figlia sia potuta tornare al suo villaggio natale. Era rimasta scioccata ed era svenuta alla notizia che sua figlia avrebbe potuto essere decapitata.
“Il padre di Sulaimah è morto per il dispiacere di sapere che Sulaimah avrebbe fatto quella brutta fine. La notizia ci era arrivata attraverso un sms, ancora oggi non sappiamo chi sia stato a mandarlo. Tuttavia ora sono felice che sia tornata. E non le permetterò più di tornare là, se mai vorrà, un giorno,” ripete Sa’denah.
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- Sono nato e vivo tutt'ora in Indonesia. Una nazione plurale, multiforme, con migliaia di isole, migliaia di tradizioni, di etnie, di lingue locali. Sono 11 anni che lavoro nel mondo del giornalismo, ho iniziato da un piccolo giornale locale, per poi diventare inviato televisivo per un'emittente nazionale. Ora, oltre a scrivere per Frontiere News, lavoro come giornalista full time per un rivista internazionale, e faccio anche il Freelance. Sono sposato con una donna italiana, che mi continua a dare l'energia per scrivere. Non sono un amante della politica, ma nei miei articoli cerco di trasmettere il mio amore per la natura, le tradizioni e le usanze dei popoli.
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