testo e foto di Stefano Romano
Ci sono storie di migrazione che sono comuni, ordinarie, si dice che sono storie come tante. Poi ci sono storie invece fuori dal comune, che affondano nel tessuto nervoso più profondo del corpo migratorio. E fanno male. C’è chi la migrazione non l’ha scelta per necessità lavorativa ma gli è stata imposta dalla fatalità. Come è successo a Annielaure, una giovane donna di ventotto anni, arrivata dal Camerun a Roma.
Annielaure non è sola qui. È con lei la piccola figlia di sua sorella maggiore, una bellissima bambina di sette anni che chiameremo Hope, per rispetto ed augurio. Quando Hope è nata si è subito capito che qualcosa non andava, e Annielaure – Anna, come ama farsi chiamare lei – l’ha presa subito a sé, per accudirla. Hope non mangiava, si lamentava continuamente; la portano all’ospedale della capitale Yaoundé per fare dei controlli. La risposta non è buona: Hope ha un brutto male, tra i peggiori. Inizia il calvario della permanenza in ospedale, molto spesso con la madre, ma il più delle volte è Anna che dorme con lei. Fa tre mesi di chemioterapia ma avrebbe bisogno di cure migliori. Contattano un amico medico a Roma che propone alla famiglia di venirla a curare al Policlinico della Capitale. La madre però è di nuovo incinta, il padre lavora. Anna non ci pensa un secondo di più, Hope è come se fosse sua figlia; prepara le valigie e parte.
Arriva al Policlinico senza nessuno, nessun amico o parente, senza parlare una parola di italiano od inglese, solo francese. Non deve neanche cercare casa, la sua casa è l’ospedale, dove divide la stanza con Hope, dormendo su un divano-letto. Iniziano le analisi, le cure. Anna immaginava di fermarsi un paio di mesi. È qui da sette mesi.
Non sono cure semplici, è un male bastardo che sottopone la piccola Hope a cicli di cure quotidiane, una vita attaccata ai tubi e alla macchine. Senza più neanche un capello. Anna ha dovuto mettersi subito ad imparare l’italiano, dice che lo ha appreso tra le corsie dell’ospedale, perché per sei mesi Anna non è mai uscita oltre le mura dell’ospedale. Sei mesi, quanto la durata del suo visto: visto turistico che ora le è anche scaduto, ma figuriamoci se ha tempo o testa per occuparsene. Fortunatamente c’è chi si sta impegnando per questo.
I primi tempi Hope piangeva sempre, le mancava il suo Camerun, la sua famiglia, il cibo, non voleva mangiare nulla. Hope piangeva e anche Anna, quando la bambina non la vedeva. L’ospedale le ha messo a disposizione un grande schermo ed internet con il computer per parlare con la sorella nel suo paese; del divano-letto non ne ha più bisogno perché Hope le ha imposto di dormire insieme, perciò si stringono insieme ogni notte, sotto i disegni colorati delle farfalle che la nipotina ama molto. Da un mese Anna esce, ha scoperto che al mercato di Piazza Vittorio si possono comprare i cibi della sua terra, e ha trovato qualche amico che le va a fare compagnia al reparto; frequenta inoltre un corso d’italiano. Il padre di Hope viene quando può, dal Camerun. Lei ha visto tante madri e bambini passare, alcuni vengono solo per un giorno a fare terapia poi vanno via. Lei vive là.
I momenti peggiori, racconta, sono stati quando i dottori le dicevano all’inizio che è un male complicato, difficile da curare, allora lei sprofondava nel dolore, pregando Dio con tutte le forze e piangendo ogni lacrima. Se le chiedi invece quale sono i momenti più belli, allora si illumina – sempre composta nel dolore e nella felicità – e ti risponde: “Il tempo trascorso insieme ad Hope”. “E quando Hope mi dice ti voglio bene“, e le scappa una lacrima che asciuga rapidissima con il dito. Su internet sta anche studiando in francese il male di sua nipote, ma in realtà è veramente come se fosse sua figlia, tanto che scherzando dice che quando tutto sarà finito e torneranno in Camerun non darà Hope a sua sorella. Sorride.
Perché raccontare la sua storia? Perché se i migranti sono – a mio avviso – degli eroi moderni, Anna merita un posto speciale. Perché lei vuole si sappia, perché potrebbe essere utile ad altri genitori nelle sue stesse condizioni, se ce la fa lei che non ha nessuno a farle coraggio allora ce la possono fare tutti.
Perché il dolore va raccontato. Come scrive Francisco Mele in “Il corpo, la persona, la presenza”: “Il dolore è una presenza inaspettata, che decide per noi.” Ma noi possiamo decidere di raccontare questa presenza per riappropriarci della nostra esistenza. Il dolore condiviso disperde la sua energia ed intensità, e questa legge fisica diventa fondamentale come cura psicologica. Hans-Georg Gadamer scrive: “Il dolore può strappare dall’ampio orizzonte dell’esperienza del mondo costringendo a ritirarsi nell’interiorità.” Ecco perché diventa fondamentale il dialogo per riallacciarsi al mondo, vincere la solitudine. Curare le persone significa anche consentire al malato di “rientrare nella sua esistenza”. Scopo della guarigione è quello di ricostruire il senso della persona sofferente: simbolizzare la fonte della sofferenza può essere un modo per tentare d’incrinare il muro di solitudine che la vista di una bambina di quattro anni dolorante ed amata erige. Augurandole che tutto vada bene, questa è la nostra speranza, la nostra Hope.
Alcune persone ci insegnano molto senza neanche saperlo. Dovremmo smettere di chiamarli “stranieri”, non sono affatto strani, sono come noi. Siamo tutti uguali. Davanti al dolore nessuno è straniero.
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Intenso, giusto,…Hope ti vogliamo bene!