di Emilio Garofalo
In Turchia, ieri, è stata fatta giustizia. Una sentenza “storica” (anche se non ancora passata in giudicato) ha condannato all’ergastolo il direttore di un carcere e due guardie penitenziarie. Altri nove funzionari sono stati condannati, a vario titolo, con pene che vanno da cinque mesi a 12 anni e mezzo di reclusione.
Il loro reato risale ai primi giorni di ottobre del 2008: massacrarono in carcere, fino a ucciderlo, l’attivista politico turco Engin Ceber. L’uomo, impegnato nella lotta per i diritti umani, era stato arrestato dopo essere stato fermato durante una manifestazione di protesta a favore di un altro attivista, precedentemente ferito da un agente di polizia.
Trasferito in carcere a Istanbul, Ceber era stato picchiato con inaudita violenza dagli agenti di polizia. Nemmeno il ricovero in ospedale era bastato a salvargli la vita. Morì per le ferite riportate durante il brutale pestaggio, e a seguito di un’agonia di tre giorni. Arriva a quattro anni dalla morte una sentenza che la stessa Amnesty International già definisce “storica”, ovvero il carcere a vita per il responsabile del penitenziario e per due guardie carcerarie.
La decisione chiude un processo che aveva visto alla sbarra 19 imputati: quattro di questi, in primo grado, erano appunto stati condannati al carcere a vita, salvo poi essere “salvati”, nel 2011, dalla Corte d’Appello, che, ritenendo validi alcuni vizi di forma e altre carenze tecnicistiche, aveva ordinato un nuovo processo.
Questa volta durato un anno e perfezionatosi, invece, in una corretta procedura, che ha portato all’emanazione della sentenza di condanna. Benché non sia ancora passata in giudicato (non sono decorsi i termini per l’impugnazione in appello) la punizione imposta agli assassini di Ceber è stata menzionata da Amnesty International, che ha espresso entusiasmo per l’esito del dibattimento.
Il caso di Engin Ceber si avvia, dunque, verso un epilogo non così scontato in un Paese, la Turchia, che sta cercando non senza difficoltà di emanciparsi, attraverso un macchinoso processo che dura, ormai, da anni. E sullo sfondo della vicenda giudiziaria, proprio in queste ore, sta montando una nuova polemica di stampo politico.
SNOBBARE L’UE Il premier Recep Tayyip Erdogan, del partita islamico nazionalista, al potere dal 2002, durante un convegno tenutosi la scorsa domenica, ha del tutto ignorato l’Europa, evitando accuratamente di parlare della possibilità di entrare a far parte della Comunità.
Tra le intenzioni del “sultano”, si legge sulle colonne dei principali quotidiani turchi, non ci sarebbe affatto quella di presentare la candidatura all’Unione Europea: nelle quasi tre ore di un discorso fiume, in occasione di un raduno del Partito per la Giustizia e per lo sviluppo, il primo ministro ha snobbato l’Europa. Piuttosto si è detto intenzionato a preservare una forte connessione col governo centrale di Ankara.
Dimenticanza o un piano ben preciso? Secondo alcuni organi di stampa, sarebbe l’ennesima conferma del processo di islamizzazione di un premier intenzionato a restare in carica sino al 2023. Tuttavia, stando al commento, invece, di altri (specie tra gli ambienti politici e istituzionali) quella di Erdogan sarebbe una intelligente “prova di forza”, un tatticismo di psicologia politica, nei confronti dell’Europa, presunta colpevole di ritardi nella stesura delle trattative per l’adesione.
Ma, forse, la soluzione dell’enigma interpretativo starebbe anche in una sorta di “terza via”. Secondo Ahmet Hakan, analista politico, per spiegare l’atteggiamento di Erdogan bisogna comprenderne prima il pensiero. Il premier avrebbe “una missione storica”: quella di riconquistare l’area di influenza dell’impero ottomano.
È un leader fortemente convinto delle possibilità di rinascita del proprio Paese e, soprattutto, delle proprie possibilità. Erdogan si considera la giusta guida, non solo politica ma anche morale, della Turchia.
E non a caso il leader del l’Akp avrebbe anche tuonato contro gli organi di stampa contrari alle sue decisioni, e non senza prima aver insistito ripetutamente sui valori dell’Islam e sulla vicinanza della Turchia con i “Paesi fratelli” del Medioriente. Riservando, invece, alla Comunità Europea, scintille e tensioni. E un “imbarazzante” silenzio.
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