dalla nostra corrispondente a Pechino Natina Balzano
Qualche giorno fa, la notizia del mancato rinnovo del visto cinese a Chris Buckley (si tratta in realtà solo di un ritardo, che potrebbe effettivamente risolversi nell’espulsione dal Paese) aveva indignato i lettori di tutto il mondo. Il corrispondente del New York Times si era reso “colpevole” di aver realizzato un’inchiesta sul giro di affari che ruota intorno alla famiglia dell’ex premier cinese Wen Jiabao: nonostante la portavoce del Ministero degli Esteri, Hua Chunying, avesse negato qualsiasi corrispondenza tra i due episodi, era forte la sensazione di una “rappresaglia” ai danni del giornalista e di un monito contro l’interferenza dei media stranieri nella politica interna cinese. Come al solito, la notizia era rimbalzata su tutti i principali media occidentali, ma qui in Cina il filtro sull’informazione aveva fatto sì che pochi si accorgessero della disavventura di Chris Buckley o la ritenessero rilevante.
Quello che è successo nei giorni scorsi al settimanale Nanfang Zhoumo (noto in inglese come Southern Weekend) ha invece attirato l’attenzione degli intellettuali cinesi e del popolo del web, fino a sfociare in manifestazioni aperte di protesta che alcuni osservatori stranieri hanno definito (forse con eccessivo entusiasmo) “la più grande mobilitazione per la democrazia in Cina dopo Tian’anmen”.
L’EDITORIALE E LA PROPAGANDA Ma andiamo con ordine. Tutto comincia quando i collaboratori di quella che da quasi 20 anni è considerata una delle testate più indipendenti del panorama mediatico cinese scoprono che l’editoriale di Capodanno pubblicato sull’ultimo numero del giornale è stato riscritto e mandato alle stampe senza consultare la redazione. L’augurio di un maggiore rispetto della Costituzione per l’anno a venire (dal titolo, secondo fonti sul web, “I sogni sono lo nostre promesse di ciò che dovrebbe essere fatto”) è diventato un sostanziale elogio del riformismo del Partito Comunista Cinese (“Siamo oggi più vicini che mai ai nostri sogni”). La sostituzione sarebbe opera dei responsabili della propaganda del Partito Comunista del Guangdong, la provincia nel cui capoluogo, Guangzhou (Canton), ha sede il Nanfang Zhoumo.
Alcuni redattori del giornale denunciano tramite i loro account Weibo (la versione cinese di Twitter) il colpo di mano avvenuto all’interno della rivista. Nel giro di poche ore la notizia fa il giro del web, e numerosi netizen e intellettuali pubblici manifestano solidarietà ai giornalisti. Si parla di sciopero vero e proprio, e una lettera aperta invoca le dimissioni del capo del dipartimento di propaganda del PCC del Guangdong, Tuo Zhen. Dai vertici (del giornale e del partito) nessun segno di vita, finché il 6 gennaio il Weibo ufficiale del Nanfang Zhoumo comunica, con un post dal titolo “Ai lettori”, che le autorità non hanno avuto alcun ruolo nel cambiamento dell’editoriale. Secondo alcuni giornalisti, però, anche il sito e i social network del giornale sarebbero ormai fuori dal controllo della redazione.
INFORMAZIONE A LUTTO A quel punto l’indignazione è uscita dalla rete: il 7 e l’8 gennaio almeno un centinaio di persone si sono radunate fuori alla redazione del Nanfang Zhoumo portando striscioni e fiori in segno di lutto per la “morte della libertà d’informazione”. Dimostrazioni di solidarietà ai redattori sono giunte via web da cittadini comuni e personaggi pubblici, nonostante qualsiasi informazione contenente riferimenti alla vicenda venga tuttora immediatamente rimossa. Sono palpabili la preoccupazione per lo stato di salute dei media e la delusione delle aspettative riposte nella nuova leadership, che mostra invece di non voler retrocedere dalla sua politica di stretto controllo dell’informazione.
IL CONTROLLO DELLE REDAZIONI La reazione di Pechino è arrivata infatti tramite una direttiva inviata lo scorso weekend ai principali media del Paese, in cui si invitavano i direttori responsabili a non trattare l’affaire Nanfang Zhoumo e si ribadiva l’inevitabilità del controllo politico sulla stampa. Nel frattempo, sempre Hua Chunying dichiarava in conferenza stampa di non essere a conoscenza di alcuno sciopero (come confermato dal Segretario di Partito del Guangdong) e rassicurava i presenti sull’indipendenza della stampa cinese. Su quest’ultimo punto la portavoce non mentiva: la censura dell’informazione in Cina ufficialmente non esiste e la libertà di stampa è sancita dalla Costituzione. Il controllo viene esercitato attraverso l’inserimento di membri del partito all’interno delle redazioni delle testate più importanti (che a volte sono direttamente gestite in comproprietà da dipartimenti del PCC) e attraverso pressioni più o meno esplicite sui giornalisti. Diverse autorità locali e centrali (giornalisti e blogger, con riferimento al romanzo 1984, parlano di un invisibile Ministero della Verità) diramano quotidianamente, presso i principali media e le compagnie di Internet, dei bollettini che indicano quali argomenti è possibile trattare, in che termini e da quali fonti (il sito China Digital Times ne riporta alcuni casi, anche sulla vicenda in questione).
Il 7 gennaio, il Global Times, quotidiano su posizioni filogovernative che ha anche una versione in inglese, ha pubblicato un duro editoriale di accusa contro i giornalisti del Nanfang Zhoumo, facendo eco alla voce del PCC: “Per i professionisti dell’informazione, è chiaro che, nella situazione attuale della Cina, è improbabile che ci saranno i “media assolutamente liberi” che certi attivisti sognano. Lo sviluppo dei media deve proseguire in accordo con le condizioni della Cina”. L’editorialista mostra di saperla lunga anche sui desideri dei cinesi: “L’attenzione della Cina è riposta sullo sviluppo dell’economia e il miglioramento delle condizioni di vita. Il pubblico non vuole vedere incertezze nel futuro del Paese”.
E qui la storia continua, spostandosi a Pechino. Il giorno successivo, i principali giornali locali e nazionali ripubblicano con grande enfasi l’editoriale del Global Times. Secondo il ben informato South China Morning Post, la rottura si è a questo punto consumata in seno al Xin Jing Bao, il quotidiano più importante della capitale, il cui direttore, Dai Zigeng, avrebbe rassegnato verbalmente le sue dimissioni (rifiutate dall’editore) perché pressato alla pubblicazione di un articolo di cui non condivideva il contenuto. Tale editore altri non è che il Dipartimento di Propaganda della Municipalità di Pechino, e lo stesso Dai Zigeng è un membro dell’apparato. L’incidente, conclusosi con l’editoriale del Global Times relegato in un trafiletto a pagina 20 del Xin Jing Bao e il direttore ancora al suo posto (per il momento), mostra così le contraddizioni all’interno dell’establishment e del Partito, smarrito di fronte ai cambiamenti della società cinese e alla necessità di adeguarvisi senza perdere il controllo sulla sfera pubblica.
Mercoledì 9 gennaio si diffonde infine la notizia che è stato raggiunto un accordo tra il dipartimento di Propaganda del Guangzhou e la redazione del Nanfang Zhoumo, con la revoca dello “sciopero” (mai ufficialmente confermato, dato l’oscuramento dei dettagli della vicenda su tutti i mezzi di informazione mainstream) e la “promessa” che non si ripeteranno interventi così invasivi sui contenuti della rivista. La censura insomma non viene messa in discussione, diventa solo più soft. Il nuovo numero del giornale è comparso regolarmente nelle edicole, sebbene pare che in alcune città sia stato difficile procurarsene una copia.
I CITTADINI E LA RICHIESTA DI TRASPARENZA D’altra parte un caso eclatante come quello di questo inizio d’anno è solo l’eccezione all’interno di un sistema in cui il controllo sull’informazione avviene in forme sottili e silenziose, e si risolve soprattutto nell’autocensura da parte di giornalisti e editori. Il passo falso dei funzionari del Guangdong (che hanno peccato solo di ingenua ed eccessiva sfrontatezza), con le reazioni a catena che sono seguite, è la riprova che invece la società civile cinese comincia a sentire il peso di queste ingerenze. Il web d’altra parte rende ormai praticamente impossibile nascondere scandali, ingiustizie e abusi della politica. I cittadini cinesi (e va bene, solo una minoranza di essi, la più colta e informata, almeno per ora) reclamano sempre più verità e trasparenza, e rivendicano il diritto a sapere, giudicare, decidere.
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