di Carlo Barberio
Un anno e poco più è passato dal primo giorno in cui ho messo piede nel campo Rom situato a Torre del Greco. Formato da ex-bunker della seconda guerra mondiale, il campo conferisce ai gitani che lo popolano la condizione di “esuli”. Donne in gonna lunga, bimbi nudi che giocherellano in pozze d’acqua e uomini indolenti e sovrappeso che si riparano dal sole cocente di agosto sotto il tetto della baracca principale del campo: questo fu lo scenario che si aprì ai miei occhi inizialmente infastiditi dai cumuli di immondizia che sfamavano ratti famelici.
L’aspetto che però mi interessava analizzare era il rapporto tra le comunità rom ed il contesto sociale circostante, nei luoghi di origine in Romania ed in Italia. Ho così intrapreso un viaggio che mi conducesse nei loro villaggi originari in Romania con l’obiettivo di fotografarli nel loro scorrere quotidiano, nel loro “tempo” relativo, uscendo dai luoghi comuni che asfissiano e appiattiscono da sempre la variegata cultura gitana.
Situata nella regione della Bucovina, nell’estremo nord della Romania, Voitinel è la città d’origine di gran parte della popolazione del campo, dove ospite in una graziosa casetta in legno, ho risieduto per qualche giorno. Il mio percorso poi si è esteso lungo l’intera Romania, passando per la Transilvania, sino a giungere nell’attuale Valea lui stan, dove sul finire degli anni settanta Nicolae Causescu, infastidito dalla presenza di zingari sulla strada tra Bucarest e Sibiu, decise di confinarli in questa valle nascosta lungo i Carpazi centrali.
Ovunque sia giunto ho sempre riscontrato la solita accoglienza gaia e affabile a base di “sarmale” il loro piatto tipico, ma ho anche notato che la condizione di “esuli” emerge anche in Romania. “Gadjò” è la parola con la quale i gitani indicano tutte le persone che non fanno parte della loro etnia ma che a loro volta li pone anche nella condizione di stranieri in qualsiasi luogo essi si trovino.
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