di Marco Marano
Succedeva una notte di metà febbraio del 2013, anzi era prima mattina, quando all’ospedale Maggiore di Bologna, nei bagni adiacenti il reparto maternità, una ronda della Lega Nord, con in testa una dirigente locale ed un consigliere comunale, che era stato addirittura candidato sindaco, uno dalla faccia pulita si direbbe, erano lì a stazionare. Mentre la campagna elettorale imperversava, loro erano lì in attesa di un gruppetto di rom, che solitamente usufruivano dei bagni di quel reparto, per poterli cacciare. L’operazione era stata pianificata nei minimi particolari, c’era persino un fotografo, per poi apparire il giorno dopo sui giornali, con le facce di chi ha a cuore il benessere dei cittadini… E così è stato. Il giorno dopo le loro foto sono apparse sui giornali, e anziché vergognarsi della pochezza politica del loro gesto, ne hanno fatto un vanto, per una manciata di voti: anche questa è Italia.
I giornali oltre che parlare del fatto in sé non si sono spinti. Non si sono minimamente posti una delle cinque domande fondamentali per chi scrive un articolo di cronaca: “perché?” Perché quei rom erano soliti frequentare il bagno adiacente al reparto maternità dell’ospedale Maggiore? E il sindaco Merola, che interveniva stigmatizzando il gesto, per fortuna, non spiegava perché quei cittadini Rom erano tutte le mattine in quel bagno per lavarsi con acqua potabile.
Il perché è presto detto. Alle spalle dell’ospedale Maggiore, precisamente nella zona chiamata Prati di Caprara sorge uno dei campi spontanei dove sono stati creati insediamenti abitativi abusivi da parte di un centinaio di persone di etnia rom. Un altro di questi campi si trova nella zona di Casteldebole con un altro centinaio di persone. Vivono in baracche di legna e plastica disposte a gruppi di quattro o cinque con al centro un fuoco con un braciere in mattoni. Uomini e donne e pochi bambini.
Francesco Piantoni ed Elisa Trimeri sono due operatori della cooperativa sociale Piccola Carovana che hanno avuto mandato, da parte del Comune, di avviare un lavoro di monitoraggio della situazione. Sono loro che ci accompagnano nei meandri delle “Città invisibili”, così si chiama il progetto che li vede intervenire sui campi Rom sorti abusivamente.
“Noi ci rendiamo conto – dice Elisa – che vi è l’esigenza pubblica di salvaguardare i diritti dei cittadini nel momento in cui vi sono continue segnalazioni sui bagni di un ospedale sempre sporchi, però è importante anche salvaguardare l’idea di una città che s’interroga sui diritti di cittadinanza di chi sta ai margini, perché la collettività non può essere divisa in controparti, ma è una sola…”
E mentre Elisa ci parla della mission di Piccola Carovana, ci viene in mente quanto sarebbe stato bello, ma forse sarebbe meglio dire civile, che il giorno dopo i fatti dell’ospedale Maggiore i giornali si fossero posti il problema in questi termini…
“Il nostro lavoro – spiega Francesco – in questa fase è quello di riuscire in tempi brevi ad avere chiara la mappa degli insediamenti e delle dinamiche interne ad essi, per intervenire nell’ambito della prevenzione socio-sanitaria, al fine di poter orientare ed informare queste persone su come muoversi in città. Ma questo vuole essere solo il primo passo. Il nostro obiettivo è quello di contagiare il territorio, inteso sia come soggetti pubblici che cittadini più o meno organizzati, per far passare l’idea che occorre una strategia di sviluppo per trovare le soluzioni migliori.”
Già è proprio questo il punto, cioè quello di pensare alle città come reti di soggetti con delle finalità strategiche per il proprio territorio, dove vengano individuate le migliori risorse per creare sviluppo sostenibile. Ed è paradossale che sia, in questo caso, una organizzazione di privato sociale a declinare questi bisogni, poiché essi dovrebbero rientrare nella mission dei sistemi politici locali.
C’è una storia da raccontare, quella della città di Craiova, un comune di 250mila abitanti, nel sud della Romania, capoluogo del distretto di Dolj, la regione, a quanto pare, con i peggiori indici economici, in un contesto nazionale disastroso. Il dieci per cento della popolazione è Rom, ma in città ne sono rimasti poco meno di 3000. L’esodo è stato verso la Francia, la Spagna e l’Italia. Da Craiova, negli ultimi dieci anni, sono partite centinaia di famiglie che hanno individuato proprio Bologna come destinazione, tanto che Cofferati, quando era sindaco, aveva avviato dei programmi d’intervento, tra cui uno molto particolare… Quello che riguardava un protocollo d’intesa con l’amministrazione comunale di Craiova per uno scambio d’informazioni che dovevano servire ad intercettare finanziamenti, per fare progetti di sviluppo su quel territorio, finalizzati ad impedire l’emigrazione. Ovviamente un’azione questa troppo debole per ottenere dei risultati validi.
Su un altro versante l’amministrazione Cofferati operò i famosi sgomberi sul lungo Reno, aprì alcuni campi diciamo così di transizione, attivò dei progetti di inclusione sociale e abitativa con le risorse del Comune, e altri progetti di rimpatrio assistito. Alle azioni d’inclusione sociale che, in qualche modo, costituirono una buona prassi per la città di Bologna, partecipò anche la cooperativa Piccola Carovana, occupandosi di monitorare la situazione delle famiglie incluse, monitoraggio che doveva durare quattro anni ma che si è prolungato fino ai nostri giorni.
“Dopo quella stagione – osserva Elisa – cioè dal 2009, c’è stata un’assenza di prospettive nelle politiche territoriali, i campi si formavano continuamente e continuamente venivano sgomberati. Oggi è cambiata l’attenzione, per cui se negli ultimi anni noi facevamo il lavoro di monitoraggio sui campi spontanei come volontari, adesso abbiamo un preciso mandato da parte della municipalità. In questo momento – prosegue Elisa – il nostro referente è l’Asp (Azienda Pubblica di Servizi alla Persona ndr) Poveri Vergognosi la quale gestisce, per conto del Comune, questo pezzo di attività legata all’inclusione sociale nella città. Dopo una prima fase di osservazione vogliamo porci alcuni obiettivi significativi”.
“Vogliamo, innanzitutto, individuare un paio di famiglie – riprende Francesco – per formulare un vero e proprio progetto d’inclusione sociale sul territorio, che possa rappresentare un esempio di buona prassi, rispondendo all’idea di pensare alla comunità come unico soggetto collettivo. E poi, visto che la Romania è entrata nell’UE sarebbe decisivo costruire dei progetti di sviluppo in termini di cooperazione internazionale. Noi andiamo spesso – sottolinea Francesco – in Romania a confrontarci con i nostri colleghi operatori e questa linea di azione è molto auspicata”. Anche perché in una città come Craiova, ad esempio, quello che manca, oltre allo sviluppo economico, sono le professionalità, il know how, per cui in ragione di una cultura europea che si fonda sul principio della coesione sociale è sempre più impellente pensare allo sviluppo del proprio territorio in termini di scambio di prassi con quei territori europei dove i processi migratori sono deflagrati.
C’è anche da dire che a Bologna vi è una realtà, legata all’emigrazione dei Rom di provenienza balcanica, quelli che vivono nei camper posizionati nei pressi dei centri commerciali, prevalentemente nella zona del Pilastro del quartiere San Donato, i quali sono arrivati in età prescolare o addirittura sono nati in Italia, come alcune famiglie kosovare; questi hanno un progetto migratorio strutturato e mai torneranno nel loro paese d’origine.
“E’ necessario – conclude Elisa – creare al più presto una rete soprattutto con i servizi di quartiere, cosa che abbiamo già iniziato a fare a San Donato, anche perché queste persone non abitano nelle aree periferiche della città ma dentro i quartieri, a diretto contatto con gli altri cittadini, per cui se non si interviene sull’idea di reciprocità dei bisogni, chi ha vicino alla propria casa una famiglia rom non si sentirà garantito. Anche per questo c’è bisogno di “advocacy”, cioè di supporti anche di comunicazione per parlare in modo sensato di questi temi…”
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