di Joshua Evangelista
Passeggiavo tra le macerie, scortato da alcuni vigili del fuoco. La mia casa di Castelnuovo, un minuscolo borgo in provincia dell’Aquila, era completamente distrutta. Dalla facciata principale squarciata riuscivo a vedere un armadio piegato come una fisarmonica. I vestiti erano scivolati fino alla strada.
Bianca, un anziano pastore maremmano, passeggiava disperata tra i ruderi della chiesa appena ristrutturata alla ricerca del suo padrone. I miei vicini di casa – alcuni anziani nati lì prima della guerra e dei manovali macedoni – erano quasi tutti morti.
Quasi, non tutti. Un muratore era sfuggito per caso alla distruzione della sua famiglia, salvato da una finestra che inspiegabilmente non aveva ceduto.
Mi ritrovai con lui, alcuni parenti degli anziani montanari e una ventina di membri delle famiglie allargate dei macedoni, venuti da tutto l’Aquilano per piangere insieme.
Le salme erano coperte da alcuni panni bianchi. Intorno c’eravamo tutti noi, a formare un circolo. Il mio 6 aprile 2009 e’ stato un giorno interculturale. Nel vero senso del termine. Tutte le frizioni tra lavoratori stranieri e gli abitanti del borgo si erano frantumate. Eravamo lì, in un silenzio surreale, a condividere una tragedia più grande di noi. Qualcuno aveva perso il figlio adolescente, qualcuno l’anziano papà che aveva rifiutato di abbandonare il borgo nonostante l’eta’ avanzata e la solitudine.
E poi c’era chi – per uno scherzo beffardo della natura – era lì, in salvo, mentre tutta la famiglia era stata inghiottita da mattoni e cemento. Aveva le mani indurite dalla polvere e dalla calce e il volto levigato dalle lacrime. Mi mise una mano sulla spalla e mi disse: “Mi spiace che la tua casa sia crollata”.
Avrei voluto rispondergli: “Lascia perdere, la tua tragedia è ben più grave” o “Conta su di me per qualsiasi cosa”. Ma non dissi nulla. Mi allontanai per piangere, in silenzio.
C’era una dignità difficile da spiegare, in quell’improbabile gruppo multietnico di persone accomunate da un lutto collettivo. In quel momento la massa era diventata comunità. Nei mesi successivi l’immagine di questo circolo silenzioso e coeso fu spesso al centro dei miei pensieri.
Mentre la politica italiana si impegnava in uno dei periodi più razzisti della sua storia, in un borgo abruzzese un gruppo formato da cattolici e ortodossi, indigeni e migranti, mi insegnava che si può partire da una base condivisa e costruire una comunità, nonostante le differenze culturali. Fino a quando delegheremo alla tragedia il compito di insegnarci la convivenza?
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