Nei locali del Circolo Bosio, a Roma, abbiamo avuto la possibilità di incontrare Mohammed Joha, affermato artista palestinese e componente del collettivo di artisti “Windows from Gaza for contemporary art”. Nella settimana in cui a Roma si è svolta una lunga serie di incontri dedicati alla Palestina e in cui sono stati ospiti fra gli altri i giovani artisti gazawi del convoglio “Vik Gaza to Italy”, abbiamo voluto capire insieme a lui il senso che può darsi alla parola “arte” quando si combatte contro la quotidiana e sistematica privazione dei più elementari diritti umani. Nato e cresciuto a Gaza, dove ha mosso i suoi primi passi come artista visivo concettuale, Mohammed ha approfondito la sua formazione viaggiando fra la Grecia, la Giordania, la Francia, la Norvegia e l’Italia, aggiudicandosi nel 2004 il premio della Fondazione Qattan come “Giovane artista dell’anno” ed esponendo oltre che a Gaza e in Cisgiordania, a Londra, Dubai, in Francia e in Italia, dove attualmente risiede.
intervista di Monica Ranieri
Come è cambiata la tua attività artistica in questi anni?
A Gaza mancano i materiali, riesci a recuperarne solo a prezzi altissimi, ci si adatta anche con materiali di bassa qualità o con mezzi alternativi. Non abbiamo libertà di movimento per la presenza dei checkpoint e delle colonie e non possiamo fare viaggi per comprarne fuori, riuscire ad organizzare una mostra era quasi un miracolo. Anche se adesso cerchiamo di organizzare mostre e workshop per i giovani, non mi sono mai sentito libero come palestinese prima di tutto e poi come artista, mentre qui in Europa la mia esperienza artistica e di vita sociale è maggiore. Mi sento però sempre fra Gaza e l’ Italia perché la mia città è rimasta Gaza, il mio paese la Palestina e tutta l’arte che faccio passa in Palestina.
In che modo la tua arte si inserisce nella tradizione dell’arte palestinese?
L’arte palestinese ha conosciuto diverse fasi, a seconda dei periodi storici, come durante la prima intifada, quando era molto incentrata sulla figura del partigiano, e anche io mi sono dedicato all’arte dei graffiti in quel periodo. Dopo gli accordi di Oslo l’arte si è spostata più nel contesto sociale, ma io voglio andare anche oltre l’arte contro l’occupazione e come icona… i problemi internazionali, del Medio oriente e del sud del mondo, sono materiale per me, ed il messaggio visuale può essere universale. Ora cominciano a formarsi gruppi di artisti riuniti in fondazioni come la nostra, nata da quando nel 2003 decidemmo di ospitare un gruppo di artisti internazionali a Gaza, e di aprire una finestra attraverso cui aprirci alla conoscenza dell’altro e mostrare al mondo esterno la nostra cultura, mostrare che siamo gente come voi, abbiamo artisti, scrittori, musicisti, ch la vita cammina nonostante l’occupazione. Come gruppo di artisti giovani a Gaza facciamo arte di resistenza, ed io credo nell’arte contro la guerra non solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Adesso ovunque ci sono mezzi grazie ai quali tutti hanno l’opportunità di vedere cosa succede, non è importante essere in Palestina per sentire la nostra sofferenza come palestinesi: ci sono anche artisti che hanno prodotto opere importanti per la Palestina senza esserci stati, così come io non sono mai stato in Somalia, ma adesso faccio arte per l’Africa, per la gente che soffre la fame, che non ha acqua, perché tutte le società del mondo hanno i loro problemi e non sono lontani per me… come non è strano per me sentire del problema dell’acqua qui in Italia, è un problema che conosco bene avendo vissuto a Gaza.
Quindi la tua arte ha sempre un impegno politico?
Il contenuto politico è molto forte in Palestina, ed ha un forte effetto sulla nostra mentalità come palestinesi. Io stesso continuo a fare progetti per la Palestina: quando sono tornato a Gaza avevano tagliato l’elettricità, la gente si adattava con i motorini a benzina, non c’era acqua, e le frontiere sono sempre chiuse… ho visto Gaza come una grande gabbia, e quando sono tornato ho realizzato due installazioni per raccontare questa situazione, per esempio appendendo appeso tante luci al soffitto e aggiungendo la scritta “Buonasera Gaza”. Il nostro sogno di andare fuori non è solo per vivere fuori da Gaza, ma per mostrare al di fuori la vita di Gaza.
Una caratteristica della tua produzione è la varietà di colori e di materiali che usi che differenziano anche un progetto dall’altro…
Uso i materiali a seconda del soggetto. Per “The Jasmine and Bread revolution” (2012) ho usato i colori forti, brillanti, definiti che simboleggiano la primavera… ma il soggetto non è la primavera, io credo che sia un inverno della Nato (satiricamente), la primavera è quando la gente fa per il Paese, la rivoluzione non è il caos, è un’idea, è un’idea forte e deve essere la cultura della resistenza, la cultura del cambiamento. Nel progetto precedente, “Dream in Black and white” (2011), mi sono occupato del problema dei minori detenuti in carceri israeliane, usando bambole legate per simbolizzare i bambini e il bianco e nero perché loro vivono la loro vita come in un perenne incubo, è un esperienza che conosco direttamente, come molti della mia generazione. Ho anche usato tante tecniche diverse e fotografie ai sassi a simboleggiare i bambini, per affermare che loro sono parte della Palestina, il loro posto è fuori delle prigioni perché sono di questa terra. Non mi piace descrivere la realtà e i miei soggetti come nell’arte classica: l’arte deve stimolare il pensiero e l’artista è sempre creativo e vede il mondo in modo diverso dalla gente normale. Ho anche fatto delle foto ai bambini di Gaza ma non voglio mostrarle per portare il mio soggetto: quando creo il mio soggetto cerco sempre nella realtà, nell’immagine, qualcosa al di là di quello che possono vedere tutti, spremo il mio soggetto in mezzo a tutti questi dettagli. Se il risultato non si avvicina al messaggio che voglio trasmettere, anche se ha valore artistico, non sono soddisfatto.
Come vedi il tuo futuro e cosa speri per te come artista?
Non voglio che la mia arte sia conosciuta solo come arte palestinese. L’arte non ha identità, soprattutto nella zona mediterranea, area di contatto, di scambio di esperienza e di culture. Sono un artista libero, e sono un palestinese, porto il messaggio culturale e sociale della Palestina, anche al di là di ciò che divide il popolo palestinese. Ma porto il messaggio dell’umanità, è l’umanità che è una religione per me, quando io credo nell’umanità, credo nell’arte: il mio futuro è fare arte per l’umanità, il messaggio importante per me è di essere soprattutto un umano prima ancora di essere un artista.
VISITA IL SITO DI MOHAMED JOHA
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Americhe20 Dicembre 2024Usare l’AI per ridare un’identità a 10 milioni di schiavi afroamericani
- Centro e Sud America20 Dicembre 2024Capoeira, la ‘danza’ che preparava gli schiavi alla libertà
- Nord America19 Dicembre 2024La vita straordinaria di Elizabeth Miller, da Vogue a reporter di guerra
- Europa19 Dicembre 2024La doppia vita di Solomon Perel, nella Hitlerjugend per sopravvivere all’Olocausto