Il 2 giugno del 2005 una bomba piazzata sotto la sua macchina a Beirut, Libano, uccideva Samir Kassir. Se ne andava a quarantadue anni uno degli uomini di punta del panorama giornalistico libanese e arabo (alcuni degli editoriali apparsi sul quotidiano an-Nahar si possono leggere in Primavere. Per una Siria democratica e un Libano indipendente, Mesogea, Messina, 2006, pp. 264, 13.90 euro). Un anno dopo, nel 2006, uscì anche in Italia L’infelicità araba (Einaudi, Torino, pp. 92, 8.00 euro), libro che viene spesso indicato come una sorta di «testamento spirituale» dell’autore. Nelle prime pagine Kassir dà al lettore una sorta di ritratto di se stesso, definendosi “un arabo del Mashreq, laico, lo si noterà piuttosto in fretta, acculturato e perfino occidentalizzato – perché se no scriverebbe in francese? – ma che si considera alienato a una cultura straniera ed è, in ogni caso, poco desideroso di eliminare quanti non la pensano come lui».
La voce di chi scrive è quindi una voce laica, che interpreta la contemporaneità e la storia di quello che viene indicato come “mondo arabo” sulla base della sua laicità. Il titolo richiede subito una chiarificazione non semplice: cos’è l’infelicità araba? “L’infelicità araba ha questo di particolare: la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati, e ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e con i sentimenti. A iniziare dalla sensazione, molto diffusa e profondamente radicata, che il futuro è una strada costruita” (cap. 1) Insomma, il mondo arabo sarebbe un mondo senza futuro, appiattito sul presente e dunque in una crisi che non vede sbocchi né soluzioni. Prosegue poi l’autore nelle pagine successive “L’impotenza, innegabilmente, è oggi la cifra dell’infelicità araba. Impotenza a essere ciò che si ritiene di dover essere. Impotenza ad agire per affermare la propria volontà di esistere, se non altro come possibilità, di fronte all’altro che ti nega, ti disprezza e, adesso, nuovamente ti domina. Impotenza a reprimere la sensazione di essere ormai un’entità trascurabile sullo scacchiere planetario quando è in casa tua che si gioca la partita; un sentimento, per la verità, irreprimibile da quando la guerra in Iraq ha riportato l’occupazione straniera in terra araba. E, come contraccolpo, ha trasformato l’epoca delle indipendenze in una parentesi” (cap. 1)
Non solo la guerra in Iraq: Kassir fa riferimento ad altre esperienze, ben più datate, che hanno contribuito a questa infelicità. Persino i due maggiori esempi di resistenza araba hanno implicitamente rinforzato questo sentimento di blocco e di chiusura: la sconfitta di Israele in Libano si è trasformata in una maggiore influenza siriana sul paese mentre l’esperienza palestinese “ha fatto sì che l’immagine che gli arabi del Medio Oriente hanno di loro stessi, e quella che di loro ha il mondo, affoghi in un immenso lago di sangue” (cap. 1). E’ nato così quel sentimento religioso-politico che in una sua variante vede nella morte e quindi nell’annullamento, nel farsi vittima, l’unica possibilità contemplata nella lotta al nemico “L’islamismo jihadista – scrive Kassir – inteso come pensiero organico, non è affatto l’ideologia dominante che ci fanno spesso immaginare i media occidentali. Non di meno ha una forte capacità di suggestione, probabilmente perché oggi è l’unico movimento a offrire una via d’uscita alternativa al ruolo di vittime che gli arabi si compiacciono di coltivare. E che l’islamismo, jihadista o no, non fa altro che avallare” (cap. 7). Il suo effetto però è quello di confondere i concetti di terrorismo e resistenza e favorire così l’intervento occidentale che impedisce agli arabi di risollevarsi da soli.
L’islamismo politico ha un ruolo che pare centrale nella visione proposta da Kassir in questo suo libro. Lo scrittore sostiene che quest’islamismo sia la risposta alla crisi politica ed economica degli stati arabi: cadute le ideologie, dice, si fa ricorso alla religione. E gli riserva parole molto dure: “Poiché dipende innanzi tutto dal deficit democratico, l’ascesa dell’Islam politico non può essere una risposta all’empasse degli Stati e delle società arabe; in quanto resistenza all’oppressione, nasce anche dal fallimento dello Stato moderno e dell’egualitarismo delle ideologie progressiste e, in questo senso, è assimilabile all’ascesa dei fascismi europei. Di fatto, il comportamento sociale dei movimenti islamisti, una volta tolto il manto religioso che li riveste, mostra molte analogie con le dittature fasciste. Inoltre avallare la pretesa dell’Islam politico e presentarsi come una forza di cambiamento, significa accettare l’idea che il deficit democratico sarà per sempre e che l’appuntamento con la modernità è stato perso una volta per tutte”. (cap. 2)
L’alternativa proposta da Kassir si trova allora nella storia araba, in particolare nel periodo indicato col termine di Nahda, “Rinascita”: quel periodo che ha inizio col crollo dell’Impero Ottomano e che, secondo l’autore, si conclude storicamente e simbolicamente con l’assedio israeliano di Beirut nel 1982. E’ questo un periodo ai cui insegnamenti il mondo arabo può ancora guardare, il periodo dell’Egitto di Nasser, dell’Algeria indipendente, della Tunisia di Bourghiba, di quelle “società arabe che si adattano senza problemi di coscienza alla secolarizzazione della vita quotidiana, sul modello proposto sia dal cinema che dalla letteratura attraverso scenari oggi inconcepibili” (cap. 5) Guai a lasciarsi andare a facili idilli su questo periodo, avverte però Kassir: l’eccesso di statalismo che lo caratterizzava è la matrice del caos attuale, ma non per questo le sue idee originarie non sono ancora valide. Intervenuta a Milano il 6 marzo 2013 al First European Day of the Righteous, Giselle el Kazzi, vedova di Kassir, ha così risposto a una domanda sull’attualità del messaggio del marito: “Penso che il più importante messaggio di Samir oggi sarebbe rivolto ai giovani arabi: che continuino la Rivoluzione per ottenere la loro dignità“.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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