L’istruzione nell’Afghanistan più autentico, tra i fieri bambini del Nord

 

 

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di Ilaria Bortot

Durante uno degli ultimi giorni della mia visita a Camp Arena, la base ISAF di Herat, ho finalmente la possibilità di vedere l’Afghansitan vero. L’Afghanistan dei villaggi, dei bambini con gli occhi fieri, delle donne nascoste, degli anziani con le barbe bianche, dei turbanti, delle case fatte con mattoni impastati a mano, delle montagne alte e del cielo terso.

Salgo sul CH47, mi siedo nel posto che mi è stato assegnato e mi preparo per i venti minuti di volo che mi aspettano. Spesso i militari preferiscono muoversi in elicottero, o comunque, per via aerea: in questo modo è più difficile venire colpiti dagli insurgents. Guardare dal “finestrino” è un’emozione unica: montagne che sembrano dune di roccia, un panorama che ti lascia senza fiato, un cielo limpido che pare accoglierti e dirti di stare tranquillo, che sei a casa.

Mentre atterriamo la polvere che solleviamo entra tutta dentro il mezzo: per un attimo è come essere in mezzo ad una tempesta di sabbia. Bisogna scendere veloci e allontanarsi dal mezzo, mettersi in sicurezza, seguire la procedura che ci è stata spiegata durante i briefing nei giorni scorsi. Scendo, corro, mi allontano e poi, finalmente, alzo gli occhi e osservo quello che c’è davanti a me.

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Siamo a Rubart Miza, un villaggio a Nord della provincia di Herat e siamo qui per inaugurare la costruzione di una scuola finanziata dal PRT italiano. Ci aspettano tutti, i bambini schierati e incuriositi, gli anziani e gli uomini del villaggio che aspettano di partecipare alla shura. Mi guardo intorno e cerco le donne: non ne vedo. Saranno in casa, a sbirciare dalla finestra. Solo un gruppetto di bambine è seduto su un muretto, un pochino più lontano rispetto a noi. Resteranno lì tutto il tempo.

Tra elmetto, giubbotto antiproiettile e macchina fotografica, mi rendo conto di essere impacciata e di attirare l’attenzione. Mi sento affascinata e fuori posto, tutto allo stesso tempo. Ci prepariamo per assistere alla shura, dove parteciperanno alcune autorità locali e il colonnello G.M.Gionti in quanto responsabile del PRT.

Su quei tappeti, stesi su una terra inaspettatamente verde, gambe incrociate e turbanti colorati aspettano e ascoltano. I bambini, tra i rimproveri e i sorrisi, sono invitati a partecipare. Solo i maschi ovviamente anche se la scuola, promettono, sarà mista.

Mi restano impresse le parole del colonnello, forse perché sono le uniche che capisco in toto, senza traduzione. O forse perché nella sua voce c’è un po’ di orgoglio e commozione: inaugurare una scuola in un paese come l’Afghanistan è una speranza in più. La speranza che quei bambini possano frequentarla, la speranza che con la conoscenza e con lo studio riescano a rendere il loro paese sempre migliore, senza guerre. Dalla posa della prima pietra passeranno solo 180 giorni per vedere la scuola finita: sono queste le tempistiche previste dai progetti promossi dal Provincial Reconstruction Team.

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Questi bambini sono il vostro futuro. Oggi qui, mentre tagliano questo nastro. E domani, in quelle aule. Loro sono la nuova generazione che ha diritto di vivere in un nuovo Afghanistan, fatto di speranza e di educazione. E’ per loro che dobbiamo continuare a fare il nostro lavoro bene, senza farci mai scoraggiare”.

Già, per loro. Per quegli sguardi incuriositi, sfrontati. Per come si mettono in posa davanti alla macchina fotografica, fingendo di sfuggire all’obiettivo.

Per quelle bambine lontane sul muretto.

Per quelle donne, nascoste dietro ai balconi azzurri, unica nota di colore in quel marrone sabbia che caratterizza il villaggio.

Mentre stiamo per risalire sul CH47, riesco a fotografarne una, avvolta nel suo burqa nero mentre sembra camminare sui tetti del villaggio. E rimane in me la sensazione che senza le loro voci, tutto questo non sarà mai un racconto completo.

 


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