“Suicide Note from Palestine”, quando il teatro racconta la vita tra i check-point

Quella prima dell’esame di storia è una notte agitata per Amal. In sogno sarà Palestina e proverà la sensazione e la voglia di morire e poi ancora quella di tornare alla vita, per essere una volta di più ferita, umiliata, per sentire la forza di abbandonarla, e ancora rinascere. Si tratta di una notte e di un sogno che durano meno di un’ora, e di un palco teatrale che si anima di onirici contrasti di luce, di note musicali che trascinano Amal nel dramma di un confronto serrato con chi contribuisce alla sua oppressione e la cullano nei momenti in cui il dolore lascia spazio alla riflessione, e alla voglia di reagire, di monitor che continuamente riflettono il suo volto angosciato, di barriere che la rinchiudono, la opprimono, di muri che la occultano e che nascondono la verità. Una verità scomoda, ma l’unica verità: quello che Amal ci mostra è l’incubo che da sessantacinque anni il popolo palestinese vive quotidianamente, resistendo, sempre, e sul palco ci sono i giovanissimi attori di Jenin che hanno dato alla loro resistenza la forma del Freedom Theatre, un teatro politico per definizione.

Micaela Miranda, co-director di “Suicide Note from Palestine” spiega che “Essere palestinese è un atto politico. Quando vuoi andare da Jenin a Ramallah devi attraversare i checkpoint controllati dai soldati che possono decidere della tua vita, se potrai andare avanti o dovrai tornare indietro, chi sei tu, possono prendersi gioco di te, farti sentire completamente umiliato, possono chiederti qualsiasi cosa venga loro in mente. A Nabil una volta hanno chiesto di cantare per loro. Se non lo avesse fatto magari non lo avrebbero fatto passare. In quel momento devi prendere una decisione, avendo la forza di rispondere in modo politico: “Mi avete rinchiuso, avete messo me e la mia famiglia in un campo profughi, quindi perché dovrei cantare per voi. Non voglio”. Così impari come resistere, resisti esistendo, respirando, non puoi non essere “politico” e non si tratta solo del teatro, ma della vita, perché la vita è un atto politico”.

Non a caso allora Nabil Al-Raee, attuale direttore del Freedom Theatre chiarisce che la missione del teatro, specialmente in Palestina, è creare artisti politici che possano resistere e dire no a ciò che reputano sbagliato ed essere in grado di cambiare il futuro conquistando possibilità per le nuove generazioni: “Consideriamo il Freedom Theatre la nostra resistenza culturale attraverso l’arte, e attraverso il teatro come strumento per attivare una trasformazione degli individui per cambiare la società. A me il teatro ha fornito uno strumento per essere coraggioso, per decidere della mia vita. Si tratta di indicare una direzione, al di là di qualsiasi barriera e di qualsiasi pressione. Ma ogni spettacolo che abbiamo fatto ha una forte connessione con quello che accade realmente in Palestina, studiamo la nostra situazione sociale, politica, economica e poi ci chiediamo quale spettacolo possa rappresentare meglio tutto ciò.

Suicide Note from Palestine è ispirato ad un lavoro di Sara Kane, Psicosi delle 4.48, ma è adattato in modo completamente diverso, usando anche differenti tecniche visuali che abbiamo scelto parlando con gli attori, perché è necessario che si sentano integrati in quello che stanno facendo, aggiungendo anche parte di sé e delle loro storie. La connessione con l’originale è la ricerca della libertà: Sara Kane era alla ricerca della libertà, contro il sistema che sempre ti spinge ad essere e a fare ciò che lui ti dice di essere e di fare. Scrivendo questo dramma ha cercato di rompere il sistema, arrivando anche a sacrificare la propria vita, suicidandosi davvero. All’inizio l’ho odiato, non capivo la sua scelta, ma lavorandoci su ho realizzato che in molti punti il suo lavoro per noi poteva essere uno strumento di ricerca, di scoperta”. Micaela Miranda ci spiega inoltre come Psicosi delle 4.48 possa essere considerato una sorta di riflesso della realtà palestinese: “Sara Kane scriveva da un punto di vista individuale, era molto libera e consapevole di quello che le accadeva, e nello stesso tempo parlava della sua profonda depressione sulla sua esistenza e sull’impossibilità di essere capita dalla società che le imponeva come avrebbe dovuto vivere. La sua esperienza personale può diventare allora uno specchio della depressione collettiva del popolo palestinese: c’è un intero mondo intorno alla Palestina che guarda e dice come loro dovrebbero comportarsi, prendere le loro decisioni, costruire la loro Patria, e i palestinesi non riescono a vedere il futuro”. E mentre Amal-Palestina nel suo sogno cerca di scoprire il vero volto che si cela dietro le maschere dei presunti fratelli ed alleati che la circondano (ONU, Unione Europea, Paesi Arabi, Israele), i ragazzi di Jenin attraverso il sogno del teatro scoprono se stessi e un diverso modo di immaginare il futuro.

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Il ruolo di Israele “che strumentalizza la religione ebraica e fa leva sul senso di colpa dell’Europa” è interpretato da Ahmed Rokh, entrato nel Freedom Theatre dalla sua fondazione nel 2006, vincendo le resistenze della sua famiglia e la diffidenza degli amici. Ahmed nel 2002 aveva 14 anni e il 12 Aprile, giorno in cui i Palestinesi hanno denunciato il massacro di centinaia di civili da parte dell’esercito israeliano,  era in strada a giocare con altri bambini quando i soldati irruppero nel campo profughi, demolendolo: “Mi presero, e cominciarono a picchiarmi. È stato un grande shock per me, ho riportato gravi ferite interne, sia fisicamente che psicologicamente. Il teatro ha cominciato a guarirmi, a mostrarmi un modo di esistere privo di violenza, ora posso rapportarmi agli altri, parlare, posso affrontare la violenza senza essere violento. E grazie al teatro posso incontrare altre culture, viaggiare: noi siamo qui, siamo ancora vivi e possiamo cominciare a sognare. Fuori dal teatro i tuoi sogni vengono catturati, anche dalla stessa Autorità Palestinese”.

Il teatro è la via per essere liberi dalle costrizioni mentali provocate dalla perdurante occupazione israeliana anche per Saber Ashreen, che sul palco interpreta il soldato che asseconda gli ordini dei potenti senza riflettere e senza riuscire ad assumersi il peso della scelta e della responsabilità. Un atteggiamento passivo che, in altro modo, Saber osserva in molti palestinesi suoi coetanei e che ha vissuto sulla propria pelle, acquisendone consapevolezza, e crescendo personalmente grazie al teatro:

“Ci sono un molti giovani palestinesi che non hanno niente da fare, solo vivere la vita, senza lavorare, senza studiare, vivendo alla giornata, divertendosi e apparendo, non assumendosi responsabilità, non comprendendo bene cosa accade intorno a loro. Non conoscono se stessi, non sanno come affrontare la vita, lo pensano ma non lo sanno. Lo so perché prima era come loro. Ho visto morire mio padre, ucciso dagli israeliani, ed ho lanciato anche io pietre, ma il teatro mi ha insegnato come mai nessuno aveva fatto. Mi ha reso una persona che crede nel potere dell’arte di cambiare le persone, e nel potere delle persone di cambiare il mondo. E nella resistenza: quando sei sul palco combatti, combatti per la tua libertà, per altre persone, parli di loro perché loro hanno paura di farlo, hanno paura di alzarsi e dire no di fronte a ciò che è sbagliato, perché chi parla rischia la vita o la prigione, ma per me come attore è un dovere parlare di loro e per loro perché io non ho più paura, e questa è resistenza attraverso arte”.

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Il sogno di Amal-Palestina non è allora soltanto un modo per rendere nota la realtà dell’oppressione subita dal popolo palestinese ricostruendo attraverso la lente della satira la rete di rapporti che lo strangola e lo avvilisce, fra la violenza dell’esercito israeliano, la condiscendenza dell’Europa, il paternalismo Usa, l’ipocrisia degli altri stati arabi e dalle false medicine delle Nazioni Unite, ma anche un modo per invitare le nuove generazioni a prendere in mano il proprio destino combattendo in un modo differente, e ad avere la forza di esprimere se stessi.

La via di Christine Hodali, unica figura femminile in scena nel ruolo di Amal-Palestina, è quella del teatro. Christine è un’attrice freelance nata in Kuwait, ma si è trasferita prima in Giordania e poi a Beit Jala vicino a Betlemme con la sua famiglia di origine palestinese. Christine crede che “come palestinesi abbiamo provato molti modi per resistere,  per sopravvivere, e recentemente abbiamo scoperto che la resistenza culturale può essere più potente, mostrando cosa stiamo vivendo, politicamente, socialmente, e psicologicamente. Stiamo lavorando al progetto del “Freedom Bus”, usando il teatro per cercare di lenire i danni psicologici  subiti da bambini, donne, e uomini, e viaggiamo attraverso i villaggi invitando le persone a raccontare le loro esperienze, che poi trasformiamo in spettacoli da recitare davanti a loro. Vedere la loro stessa sofferenza in qualcun altro li aiuta a reagire. Questa per me è la resistenza culturale”.

Micaela Miranda ci racconta una delle storie raccolte durante il progetto del “Freedom Bus” a Nabi Saleh, dove in risposta ad una dimostrazione pacifica della popolazione palestinese contro l’avanzare degli insediamenti israeliani l’esercito era intervenuto costringendo donne e bambini a rifugiarsi tutti in una casa. Ma una delle bombe aveva rotto una delle finestre della casa, rotolando al suo interno. La gente giù in strada gridava di lanciare i bambini fuori al di là della finestra e la donna che ci stava raccontando la storia lanciò fuori la bambina nonostante la piccola le urlasse “mamma, non uccidermi, non uccidermi”. La gente racconta storie per tanti motivi, e questa è una storia di coraggio perché non puoi chiedere ad una mamma di scegliere di fare una cosa simile, un gesto disperato e straziante per cercare di salvare la propria figlia (che effettivamente è sopravvissuta ed era sulle sue ginocchia mentre la donna ci raccontava la storia) durante un attacco in cui non sei capace di capire, pensare, renderti conto di quello che accade”.

Di fronte ad innumerevoli storie come questa Christine crede nel potere della cultura di operare una trasformazione utile alla causa palestinese: “Usando la violenza raggiungiamo uno stadio che non risulta utile e sufficiente. Abbiamo bisogno di qualcosa di più potente. Ora noi siamo qui in Italia grazie alla cultura e al teatro, possiamo mostrare il nostro mondo, le nostre tradizioni, in modo che gli altri sappiano che la Palestina esiste da più di 65 anni. Anche se non è possibile separare la Palestina dalla questione politica noi abbiamo la nostra società, la nostra gente, problemi che non dipendono solo da Israele e che ci impediscono di andare avanti. Prima di parlare di politica, dobbiamo parlare di noi stessi e della nostra società e mostrare che siamo persone normali, non solo “lanciatori di pietre”, non solo combattenti”.

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Christine racconta anche come recitare in teatro in alcune zone della Palestina non viene tuttora considerato favorevolmente, in parte per la diffidenza nei confronti di un mestiere che potrebbe rivelarsi poco redditizio, in parte a causa di pregiudizi che affondano le radici nella cultura tradizionale palestinese, ma la cui incidenza varia di villaggio in villaggio. Per le donne il discorso è più complicato, sia per una sorta di tabù del contatto che si verifica sulla scena fra uomini e donne ma più sottilmente “a livello sociale, perché ci sono ancora alcune comunità che non accettano che la donna abbia un ruolo maggiore. Più di recente sono sorte scuole e accademie per lo studio del teatro che vengono frequentate dalle donne, le quali però poi abbandonano per sposarsi, avere figli, a causa di pressioni familiari e sociali. È dura, soprattutto quando lavori con gruppi che non sono abituati a lavorare con le donne sul palco, ma nonostante tutto penso che le donne svolgano comunque un ruolo attivo nel teatro, come registe o direttrici artistiche, o in ruoli che non prevedono necessariamente la presenza sulla scena. È un cambiamento ancora in atto, ma sta accadendo”.

Le ultime due scene di Suicide Note from Palestine sono dedicate al risveglio: il risveglio di una generazione ad una nuova fase in cui “si realizza che il potere sta dalla parte dei deboli se costoro sono uniti”, ed il risveglio di Amal-Palestina dal sogno, la mattina del suo esame di storia. Ma il sogno del teatro, del Freedom Theatre, di continuare a lavorare per una trasformazione individuale e sociale e per la libertà non finisce, nella speranza che l’idea di chiusura (tratta da una poesia di Bertolt Brecht) sia il motore di quel cambiamento: “Generale, l’uomo è molto utile. Può volare e può uccidere, ma ha un unico difetto: può pensare”.


Testi e foto di Monica Ranieri


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