“Ecco come i criminali hanno rovinato la nostra rivoluzione”

Tazze di tè e mozziconi di sigarette artigianali sparsi qua e là; tra noi si erge una nuvola di fumo quasi a separarci, a creare un muro che, gradualmente, provo a infrangere. E lentamente lui, un guerrigliero del Free Syrian Army (FSA), si apre raccontandomi della sua vita prima della rivoluzione, delle sofferenze del suo popolo, delle vicende che lo hanno spinto a percorrere la via della lotta armata. Alcuni dettagli sono stati omessi o leggermente modificati per impedire di risalire alla sua identità, tutelando lui e la famiglia.

Intervista di Valerio Evangelista – Settembre 2013

Partiamo dall’inizio. Qual era la tua vita prima della rivoluzione?
Studiavo ingegneria meccanica navale, frequentavo l’accademia per la marina civile all’estero, in un paese arabo (che non riportiamo per motivi di sicurezza, ndr). Quando sono state organizzate le prime manifestazioni pacifiche io ero su una nave carica di farina, nel cuore del Mediterraneo. La mia famiglia mi ha chiamato per avvisarmi dei cortei. Ne ero entusiasta, non vedevo l’ora di tornare a casa per partecipare. Ero così contento di vedere finalmente il mio popolo alzare la testa che ho disdetto il contratto lavorativo che avevo con il capitano di quella nave, così mi sarei potuto unire ai fratelli in piazza.

Come si sono svolte le prime manifestazioni?
Appena arrivato in città mi sono visto con gli amici di sempre. Parlavano tutti sottovoce o in codice per paura di essere circondati da orecchi indiscreti. Le strade erano piene di polizia e, ne sono certo, di agenti dei servizi segreti. L’unico posto dove potevamo andare a parlare in relativa tranquillità era la moschea principale. Un giorno alcuni sostenitori del regime sono entrati in moschea per cercare gli oppositori. In quel momento un uomo, rivolgendosi all’imam, ha urlato: “Il governo si è preso il mio negozio. Questo è un governo di corrotti!” Improvvisamente, e nella totale spontaneità, si è alzato un grido meraviglioso: “Libertà! Libertà! Libertà!” Gli uomini fedeli al regime – alawiti in abiti civili ma armati di bastoni e spranghe – sono stati cacciati dal popolo al grido di: “Non vogliamo settarismi, il popolo è uno e la nazione è una. Noi difenderemo la Siria con il sangue e con l’anima”. Quello è stato il giorno più bello della mia vita (mi mostra un video dove un puntino verde emerge da una folla oceanica e lui urla soddisfatto e fiero: “Quello sono io, quello sono io!”, ndr).

Come ha reagito la polizia ai primi movimenti popolari?
In quell’occasione la polizia non ha fatto nulla, ha soltanto guardato i partecipanti cercando di memorizzare più facce possibili. L’indomani sono iniziati i rastrellamenti casa per casa. Anche il mio migliore amico venne arrestato; io ero ricercato perché alcuni poliziotti hanno riconosciuto il mio volto in alcuni video amatoriali. Sono quindi scappato a casa di mio nonno. Dopo qualche giorno, noncuranti dei pericoli, io e mio cugino abbiamo deciso di sfidare il nostro status di ricercati e siamo usciti allo scoperto. Entrammo in un negozio per acquistare delle sigarette; il proprietario iniziò a chiacchierare di tante cose sconnesse tra di loro. Stava prendendo tempo. Non visto, compose il numero della polizia. Dopo pochi secondi entrarono degli agenti: ci misero sacchi in faccia e manette ai polsi. In quel momento pensai a qualche scherzo di un amico, quindi urlai: “Amico mio, fottiti di cuore”. Ci ha pensato il calcio di un kalashnikov in testa a farmi comprendere la realtà. Caricati su una macchina, siamo stati picchiati per poi essere portati in un casermone.

Inizia così la tua odissea tra i vari centri di detenzione…
Già. Mi trasferivano continuamente da una prigione all’altra e ovunque mi riempivano di interrogatori e insulti. Ricordo in particolare che in un carcere mi misero, per 15 giorni, in cella di isolamento. Il mio cibo era un uovo ogni 2 giorni. Di tanto in tanto gli aguzzini mi facevano uscire per pestarmi. Mi chiamavano “Spia di Israele e dei sauditi”, sostenendo che fossi un traditore nel libro paga dei nemici della Siria. E poi, ancora, botte e torture. Passarono 3 mesi di galera e di torture ma credimi, quelle che molti compagni hanno subito sono state molto peggio (mi mostra foto e video di amici, parenti e compagni subire ogni atrocità immaginabile, ndr). Riuscii ad abbandonare la prigionia perché i miei genitori misero insieme, non so come, una somma di denaro per farmi uscire in attesa della sentenza. In quei giorni venivano diffuse liste di persone ritenute pericolose con cui la gente non doveva avere a che fare. Inutile dire che il mio nome, così come quelli di altri manifestanti, era in quell’elenco dell’infamia: i negozi non mi vendevano più nulla, in pochi rispondevano al telefono per paura di ricevere visite delle polizia. La mia famiglia mi spinse quindi a lasciare il Paese, per riprendere gli studi e tentare di recuperare il lavoro. “Vai via, quando tornerai sarà tutto diverso. Non ci sarà più il regime, torneremo a respirare libertà. Vai, fra tre o quattro mesi tutto cambierà”.

LEGGI ANCHE:   L’apicultore di Aleppo, intervista all’autrice Christy Lefteri

LEGGI ANCHE: “Il mio inferno nelle carceri di Assad”. Un dissidente siriano si racconta a Frontiere News

Eri in attesa di una sentenza. Qual era il reato imputato?
L’accusa era di terrorismo e di creare settarismo religioso. Settarismo religioso? Ma se sono ateo! Comunque, riuscito a scappare dalla Siria, decisi di tornare alla mia vecchia vita anche se rimasi in contatto con gli oppositori, aiutandoli a diffondere i vari video che loro caricavano su YouTube. Ma non sarebbe andata avanti così per molto tempo. Un giorno, infatti, mi resi conto che la situazione stava cambiando e che troppi amici e parenti venivano uccisi o imprigionati. Decisi quindi di tornare in patria, ma questa volta il mio programma era un altro. Mi unii al Free Syrian Army.

Stiamo parlando del periodo in cui l’opposizione armata muoveva i primi passi. Che organizzazione hai incontrato nel FSA?
Mi sono unito a una brigata di combattenti della mia città. Dormivamo in scuole, in tende, nei cimiteri o dove capitava. Avevamo paura di essere intercettati da un momento all’altro. Cercavamo di organizzarci come potevamo, ma non avevamo né da mangiare né da bere. Siamo sopravvissuti solo grazie a qualche bene di contrabbando o alla benevolenza dei civili che abbiamo incontrato. Anche le armi venivano acquistate con i soldi nostri, dovevamo fare attenzione persino a quanti proiettili sparare perché avevamo pochissime munizioni. Quando liberavamo delle zone prendevamo alcune armi usate in precedenza dal regime, e questo ci permise di andare avanti.

Poi arrivarono le prime, “vere”, battaglie…
La prima, importante, battaglia di liberazione a cui ho partecipato era a Bab al-Hawa, al confine con la Turchia. Il regime dispiegò tante truppe e il nostro battaglione si divise in due gruppi: uno attaccò il checkpoint, l’altro il convoglio militare. Dopo tre giorni Bab al-Hawa è stata dichiarata liberata. I soldati ci “lasciarono” 8 carri armati, 2 cingolati di trasporto, e tante armi. Il mio gruppo, essendosi distinto per il coraggio sul campo, ottenne la maggior parte delle armi.

Bab al-Hawa, un punto estremamente strategico e da cui facevano ingressi molti combattenti islamisti…
Esattamente. All’inizio noi del FSA eravamo quasi contenti della loro presenza, perché davano aiuto pratico e armi. E inoltre molti siriani, fronteggiando quotidianamente la morte, iniziarono a nutrire l’esigenza spirituale di aggrapparsi a qualcosa di più grande di loro. I combattenti di matrice islamista erano ancora principalmente guerriglieri individuali, senza formazioni. Presto però iniziarono a evitare di combattere insieme a noi, perché ritenuti infedeli. Poi, riguardo al loro rapporto con il FSA, non va escluso il fattore linguistico e culturale: molti di loro, non essendo arabi, non riuscivano a comunicare con noi. Ricordo benissimo quando uno di loro ha sparato a un nostro compagno ritenendolo membro delle milizie lealiste. Oppure quando io e altri commilitoni siamo andati a cercare un posto dove ci fosse internet, per caricare su YouTube un video della battaglia appena combattuta; appena abbiamo acceso il computer, loro hanno sparato contro lo schermo perché spaventati dalla luce che emanava. Dopo qualche settimana di tensioni e incomprensioni, tantissimi guerriglieri islamisti (molti dei quali sarebbero poi confluiti in al-Nusra) arrivarono a Bab el-Hawa e issarono la bandiera nera con la shahada (la testimonianza di fede islamica, ndr).

LEGGI ANCHE:   La vita sotto gli Assad secondo lo scrittore siriano Yassin al-Haj Saleh

Avendo lasciato la città, riuscivi ad avere notizie dei tuoi genitori?
Un giorno ricevetti una chiamata in cui venni avvisato che mamma e papà erano appena stati arrestati. “Lascia il Paese, in città sanno tutti che sei del FSA. Se te ne vai, li lasceremo andare”. Non avevo soldi ma, pur di far liberare i miei genitori, presi la dolorosa decisione di abbandonare nuovamente la Siria. Non potevo far passare loro quello che ho sofferto io. Andai da un uomo noto per essere facoltoso e gli diedi in pegno il mio kalashnikov. In cambio mi diede i soldi necessari per lasciare il Paese; al mio ritorno avrei recuperato l’arma. Due giorni dopo aver lasciato il Paese, i miei furono rilasciati; i loro passaporti furono sequestrati e venne loro vietato di lasciare la Siria. Ma almeno non erano più in carcere.

Immagino tu non sia rimasto troppo tempo fuori dal Paese…
(Sorride) Impari a conoscermi. Già. Dopo qualche mese ero di nuovo in Siria, ovviamente di nascosto, e tornai con i miei compagni d’armi. Non potrò mai dimenticare i giorni del mio ritorno. Eravamo in un casolare abbandonato quando l’artiglieria di Assad ci attaccò; tre missili caddero in zona, due dei quali colpirono in pieno il luogo dove eravamo noi. Di 4 uomini rimasero solo le budella, sparse lungo il muro; anche io e altri 2 compagni fummo dati per morti. Fortunatamente non tutti ne erano convinti e fummo portati in vari ospedali tra Siria e Turchia per essere sottoposti a elettroshock e altri trattamenti vari. Mi risvegliai in Turchia con la notizia che i miei amici non erano riusciti a sopravvivere. Non potevo più camminare, mi spostavo – dolorosamente – grazie ad alcune sbarre di metallo che usavo come sostegni. Guarda, ecco perché sono vivo (mi mostra le cicatrici causate dai frammenti incandescenti dei missili; gambe, piedi e addome sono costellati di chiazze bordeaux, ndr). Tocca le mie cicatrici rosse! Il secondo missile, mi hanno poi raccontato, è caduto in un serbatoio d’acqua che ha quindi attutito il colpo.

In Siria cosa dicevano di quell’attacco?
Sui social network le pagine pro-Assad mi spacciarono per morto, esultando: “Il cane randagio è finalmente crepato”. I miei genitori, vedendo quelle falsità (una tra le tantissime raccontate dal regime), si spaventarono moltissimo. Quando tornai da loro mi accolsero come un figlio morto e poi resuscitato. Non posso certamente criticare la loro reazione.

A parte le cicatrici, che ancora oggi ci sono (e probabilmente rimarranno là), quali conseguenze hai avuto da quell’attacco?
Ero accompagnato da un fortissimo e fisso mal di testa, come conseguenza del trauma. Spesso perdevo i sensi e mi addormentavo senza motivo. Camminavo malissimo. Ero un vero zombie, sia esteticamente che come capacità motoria.

Da un po’ di giorni si parla di un potenziale intervento militare americano. Cosa ne pensi?
Non vogliamo un altro bombardamento da potenze straniere. Già siamo sufficientemente feriti, nel cuore e nel corpo. L’unica cosa che potrebbe avere senso sarebbe istituire una no fly zone vietando l’ingresso di armi da Russia e Iran. I bombardamenti colpirebbero soltanto altri civili, come successo in Iraq. Non ci fidiamo degli americani e se avessero voluto aiutarci lo avrebbero fatto molto tempo fa. Siamo nell’assurda situazione di dover scegliere tra le bombe americane e quelle di Assad! Sono molto preoccupato, non riesco proprio a immaginarmi una Siria manovrata da americani o da islamisti.

LEGGI ANCHE:   La rivoluzione siriana: riflessioni su un decennio di lotta

Pensi che in qualche modo sia stato tradito lo spirito iniziale della rivoluzione?
Quando abbiamo iniziato la rivoluzione volevamo solo eliminare le ingiustizie. Non era nostra intenzione attaccare una fazione o un’altra, desideravamo solo giustizia sociale e libertà per tutti. Ma Bashar al-Assad ha spinto affinché fosse raggiunto questo livello e ha trasformato la rivoluzione in un conflitto settario. La responsabillita di quanto sta accadendo e delle escalation di violenza è di Bashar e dei suoi scagnozzi, che hanno spinto le persone a odiare gli alawiti. Nei primi giorni della rivoluzione molti alawiti – che si riconoscono facilmente anche da come parlano – erano pagati da Assad per compiere massacri. Il fondamentalismo, per quanto non sia giustificabile, è una reazione alla violenza di stato. Tutto quello che ha a che vedere con la religione, Bashar l’ha fatto diventare motivo di dolore. Le moschee distrutte dalle bombe del regime hanno spinto il popolo ad abbracciare ancora di più l’islam. Io non tollero che neanche una chiesa sia distrutta, e lo dico da ateo. Loro, che si dicono musulmani, compiono azioni haram distruggendo luoghi sacri.

Dici che la responsabilità è solo di Bashar. Però, e non lo si può negare, i tanti sequestri di cui sentiamo parlare sono compiuti da gruppi legati all’opposizione armata.
È orribile quello che e successo a Paolo Dall’Oglio e agli altri rapiti. A volte vengono attuati questi metodi per chiedere attenzione e aiuto dall’esterno; ma non è certamente di beneficio per la rivoluzione, spesso sono solo briganti – e non ribelli – a rapire civili stranieri, e lo fanno per i più disparati motivi. Poi c’è da fare una riflessione: nelle aree liberate non c’è preparazione su come gestire un territorio, facilmente si creano situazioni di anarchia dove bande di criminali rubano merce e rapiscono in nome del FSA, pur non facendone parte. Quasi nessuno di noi è preparato per svolgere ruoli di polizia. Quando parlo di aiuto dall’esterno, mi riferisco anche a questo.

LEGGI ANCHE: Intervista a Témoris, reporter rapito in Siria: “Pensavo fosse la fine”

 Aiuti dall’esterno… Che fine fanno i soldi che partono dal resto del mondo e che sono diretti in Siria?
In realtà molti fondi non arrivano mai. In ospedale, dopo aver ripreso i sensi, ho dovuto badare da solo per il mio mantenimento, ad esempio. E come me anche tanti altri compagni feriti. Spesso le organizzazioni non destinano i soldi a chi ne ha bisogno; alcune fanno tutto in maniera trasparente e onesta, altri invece ne traggono solo guadagno personale (anche come immagine).

Profilo dell'autore

Valerio Evangelista
Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

6 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.