Qualcuno l’ha definito come il più grande danno ambientale della storia, superiore ai disastri BP nel Golfo del Messico e ai danni della prima Guerra del Golfo nel Persico.
Sappiamo per certo quello che ci dicono i fatti e le sentenze: in Ecuador la Texaco è stata responsabile di oltre 16,8 milioni di barili dispersi nella Foresta Amazzonica, con oltre 1 milione di ettari disboscati, danni incalcolabili alla vegetazione, inquinamento delle falde acquifere e danni alla salute di diverse generazioni. Dopo un lungo iter, nel novembre 2012, la Corte di Sucumbios in Ecuador ha condannato la Chevron (che intanto nel 2001 ha acquistato la Texaco) a pagare 9 miliardi di dollari alle popolazioni colpite dai danni dell’estrazione petrolifera, che sono diventati 18 per il rifiuto della compagnia di chiedere pubbliche scuse.
La Chevron, da anni ormai fuori dal Paese, si è sempre opposta alla sentenza adducendo vari motivi, dalla corruzione della corte, all’interferenza fraudolenta del presidente Correa. Il 17 settembre 2013 un tribunale della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja dà ragione agli esposti di Chevron-Texaco contro la Repubblica dell’Ecuador. In particolare viene riconosciuto la non perseguibilità della multinazionale. La TexPet(Texaco) è ritenuta libera da ogni responsabilità per i danni ambientali e sociali, come sembrerebbe trasparire dall’interpretazione degli accordi commerciali del 1995 e del 1998. La Corte, riunita in sezione separata, ha dato un giudizio che rimette in discussione la sentenza del Tribunale ecuadoriano. La Chevron, tramite il vice-presidente Hewitt Pate, ha subito emesso un comunicato in cui si dichiara la controversia conclusa, e proprio grazie “all’eminente tribunale internazionale che dichiara illegittima la sentenza” possono dirsi innocenti e tentare di riabilitare il nome della compagnia. In particolare dal loro sito si nota come oltre a presunti contributi alla pace nel Delta del Niger e opere benefiche di vario tipo, viene vantato il successo nella causa, dimenticando però di menzionare gli enormi danni all’ambiente che comunque hanno provocato. Difatti la Corte internazionale non ha assolto Chevron-Texaco dall’accusa di danni ambientali e sociali, ma si è limitata a dichiararli irresponsabili perché firmatari di un accordo in cui Texaco si impegnava a rimediare ai danni nella zona di Lago Agrio. Per le lotte ambientaliste è una pessima notizia, la corte ha dimostrato che il diritto internazionale protegge le multinazionali petrolifere dalle responsabilità ambientali, un semplice accordo commerciale può legittimare la distruzione di un ecosistema, come è accaduto a Sucumbios e come forse accadrà nello Yasunì.
Il presidente della repubblica dell’Ecuador, Rafaél Correa, dal momento della sua prima elezione nel 2006, ha sempre cavalcato il risentimento delle popolazioni indigene contro la Chevron-Texaco. Il giorno prima della sentenza ha invitato la comunità internazionale ad un boicottaggio massiccio del colosso petrolifero, ribadendo l’illegittimo rifiuto del pagamento dei 18 miliardi chiesti. In particolare nei giorni scorsi ha fatto visita ai pozzi dismessi della Texaco nella provincia di Sucumbios. Sporcandosi le mani con il petrolio che è ancora presente in piscine nella foresta ha dichiarato: “Questa è la mano sucia de Chevron. Per risparmiare pochi dollari, Chevron ha usato le peggiori tecnologie. Ci sono centinaia di piscine come questa in Amazzonia”.
In particolare richiama gli alleati dell’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de América ) al boicottaggio, ma Venezuela e Bolivia sono anch’essi dipendenti dal petrolio e le stesse dinamiche ecuadoriane sono presenti anche in questi paesi. Difatti, se Correa va a denunciare le pratiche di Chevron, nel Paese persistono ancora le stesse problematiche, la compagnia nazionale e le poche multinazionali ancora presenti estraggono petrolio utilizzando le stesse tecnologie obsolete usate dalla Texaco negli anni ’70. Petroecuador in particolare, con la controllata Petroamazonas, è responsabile dello sversamento di petrolio crudo dagli oleodotti, e l’inquinamento di falde acquifere nella zona amazzonica.
Contemporaneamente l’Ecuador è scosso dalle proteste dei movimenti in difesa del Parco Naturale dello Yasunì. Da quando il governo di Alianza Paìs ha abbandonato il progetto dello Yasunì ITT, che prevedeva la tutela di una piccola parte del parco dall’estrazione petrolifera se fosse stata raccolta una somma di riparazione di 35 milioni di dollari (pari al valore del petrolio estraibile), i movimenti sociali e indigeni hanno iniziato una vasta mobilitazione su scala nazionale per chiedere una consulta popolare che decida se estrarre o meno nello Yasunì. Correa invece vuole continuare sulla strada dello sfruttamento, recriminando alla comunità internazionale il disinteresse per l’iniziativa che, partita nel 2007, ha raccolto meno di un decimo della cifra stabilita. Il governo sembrava da molto tempo pronto ad abbandonare l’iniziativa, infatti da diversi ormai stanno finanziando la costruzione una raffineria per petrolio pesante, che, in tutto il Paese, è presente solo nella zona dello Yasunì. I movimenti, da parte loro, recriminano al governo il tempismo della scelta, proprio quando il prezzo del petrolio continua a salire e si richiamano alla Costituzione del 2008, che tutela l’ambiente prima di ogni altra cosa e che chiarisce in molti articoli che la sovranità energetica non sarà perseguita a spese dei diritti fondamentali.
Correa cerca quindi di far convivere i più vari strati del suo bacino elettorale, e apparentemente portare avanti una politica estrattiva e una ambientalista (solo contro multinazionali ormai fuori dal Paese), anche se ultimamente sta pagando le sue incoerenti scelte con un sempre più alto dissenso nelle grandi città come Quito e Guayaquil, i movimenti della sinistra e la spina nel fianco di Alberto Acosta, ex-ministro vicino alle istanze socialiste e indigene, trovano sempre più spazio anche se, per ottenere risultati concreti, dovrebbero riuscire a sfiduciare Correa in Parlamento o arrivare fino al prossimo turno elettorale con un assai più alto consenso.
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