Due sequestri in città, l’instabile ottobre della nuova Tripoli

di Alessandro Pagano Dritto

L’ottobre appena passato sarà ricordato in Libia soprattutto per due eventi, che sono due rapimenti. Il primo, avvenuto il 5 del mese, ai danni del cittadino libico e presunto qaedista Nazih al Ragye, noto con lo pseudonimo di «Abu Anas al Libi»; il secondo invece, avvenuto appena cinque giorni dopo, ai danni del Primo Ministro del paese, Ali Zeidan. Il primo, nonostante alcune recenti versioni differenti, sarebbe avvenuto ad opera di forze speciali statunitensi – la Delta Force dell’esercito accompagnata da elementi della CIA e dell’FBI e, sembra, anche da personale libico – il secondo invece ad opera di due gruppi di milizie: la Operations’ Room of Libya’s Revolutionaries (ORLR) e la Counter Crime Agency (CCA), entrambe riconducibili al Ministero degli Interni e alla figura del presidente del parlamento libico (General National Council, GNC) Nuri Abu Sahmain.

Secondo gli ultimi sviluppi, raccontati dalla Cnn, un altro raid statunitense avrebbe dovuto avere luogo a Bengasi contemporaneamente a quello andato a segno a Tripoli: oggetto dell’operazione, questa volta, il libico Ahmed Abu Khattala, presunta mente dell’attacco all’ambasciata cittadina del settembre 2012. Ma quest’ultima azione non è mai stato messo in atto.

Il 5 ottobre, alla notizia del sequestro, Washington e Tripoli avevano reazioni opposte: se il Segretario di Stato USA John Kerry si felicitava dell’azione ringraziando l’alleato nordafricano per la collaborazione, Tripoli chiedeva invece spiegazioni e, pur assicurando che il fatto non avrebbe incrinato i rapporti con la potenza amica d’oltre Atlantico, emanava un comunicato molto equilibrato: «Il governo sta seguendo le notizie sul sequestro di un cittadino libico voluto dalle autorità statunitensi». Il Ministro della Giustizia Salah al Marghani incontrava poi l’ambasciatrice statunitense Deborah Jones per chiarimenti. La linea ufficiale di Tripoli è dunque quella dell’ignoranza: il governo Zeidan non è mai stato al corrente del raid del 5 ottobre e di conseguenza non l’ha mai avallato.

Secondo l’esperto ISPI Arturo Varvelli il raid e ancora di più i ringraziamenti di Kerry sono stati una mossa davvero azzardata e pericolosa per la stabilità del governo libico, che solo l’1 ottobre aveva evitato d’un soffio la sfiducia del parlamento. Dichiara infatti Varvelli a Radio Vaticana: «Gli americani non capiscono realmente il paese, tanto che a giugno di quest’anno hanno chiesto una sorta di aiuto, di endorsement sulla questione libica da parte dell’Italia, del governo Letta, allo scorso G8. Quindi una scarsissima comprensione delle dinamiche ha fatto sì che ci fosse quest’azione non ponderata completamente, da parte degli americani, nelle sue conseguenze».

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Non che la frazione interna al parlamento tra islamisti e non islamisti nasca certo il giorno del raid, ma l’operazione ha l’effetto di acuire l’ostilità dei primi verso il governo non islamista di Zeidan. Di mezzo c’è anche la sovranità nazionale della Libia, che il sequestro di un cittadino libico, qaedista o no che sia, senza l’avallo del governo sembra mettere in discussione. A eventi conclusi dichiara infatti al giornale statunitense The Daily Beast Mohamed Sawan, presidente del braccio politico locale della Fratellanza Musulmana, il Justice and Construction Party (JCP): Se [Zeidan] sapeva [del raid] è un problema, se non sapeva è un problema più grande, perché dimostra che non sa cosa succede nel paese ed è un fallimento per il governo». Il partito di Sawan possiede alcuni ministri all’interno del governo, ma dopo i fatti ha ripreso a minacciare un loro ritiro, con gli effetti immaginabili.

Questo, quindi, il clima in cui matura il secondo rapimento, quello appunto del primo Ministro Ali Zeidan. Il collegamento tra i due eventi, così vicini nel tempo, è stato pressoché immediato da parte della stampa di tutto il mondo, almeno a livello di sospetti. Ma bisogna tenere conto del fatto che uno dei principali indiziati, il leader della CCA Abdulkarim Belazi, sembra avallare l’ipotesi che in realtà il piano fosse stato progettato in precedenza: avrebbe avuto radici nell’aiuto che Zeidan ha più volte richiesto agli alleati esteri per risolvere la situazione delle milizie e delle armi che girano incontrollate nel paese.

Dalla dettagliata ricostruzione che del sequestro Zeidan fa la giornalista Jamie Dettmer, parrebbe che il piano sia piuttosto abbozzato, ma allo stesso tempo condiviso da personaggi di un certo rilievo e interni al governo, come lo stesso Primo Ministro confermerà nelle successive conferenze stampa. Forse è possibile allora ipotizzare che il sequestro al Regye abbia avuto solo l’effetto di affrettare i tempi di realizzazione del piano, forse nella speranza di una popolarità mai arrivata. Zeidan viene rapito all’interno del Corinthia Hotel, albergo dei papaveri nella Tripoli bene che ospita lui, altri membri del governo e persino del personale politico straniero. Secondo le testimonianze, dalle 2.50 alle 3.20 del mattino i miliziani, intervenuti in un centinaio armati di tutto punto con armi pesanti montate sui pick up, passano al setaccio l’albergo fino a trovare il Primo Ministro: si presentano con un mandato d’arresto che sembrerebbe, col senno di poi, non valido per la mancanza di alcune firme. Khalil Yahia, ventottenne ribelle della 17 febbraio ora addetto alla sicurezza del ministro, comanda un gruppo di una dozzina di persone, impotente di fronte al centinaio di miliziani che hanno fatto irruzione armati. Sconsolato sa che, volesse chiamare i rinforzi, non potrebbe: proprio quei miliziani in cerca di Zeidan sarebbero i suoi rinforzi. A parte un po’ di comprensibile nervosismo e qualche screzio verbale, è un’azione sostanzialmente incruenta. Zeidan viene portato fuori dall’albergo, ha perso i suoi caratteristici occhiali dalla montatura pesante e stretta che porta sempre in pubblico. È in pigiama. Alcune foto che lo ritraggono ostaggio in buone condizioni vengono diffuse e, dopo sei ore, viene liberato in circostanze poco chiare grazie all’intervento di alcune milizie. Cosa hanno concluso i sequestratori? Non si muovono da Tripoli, detengono l’ostaggio al distretto di Fornaj, pare gli si chieda di dimettersi, cosa che appena libero Zeidan si rifiuta di fare; la Fratellanza Musulmana e molti governi esteri condannano subito l’operazione, gli autori sono privi di appoggio ufficiale.

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Parrebbe che i responsabili siano da trovare all’interno dell’ala più intransigente dell’islamismo politico libico, quella degli ex combattenti del LIFG (Libyan Islamic Fighting Group), che negli anni ’90 avevano tentato senza successo una guerriglia contro Gheddafi e da cui potrebbe provenire lo stesso al Ragye. È lo stesso Zeidan a indicare come responsabili dell’azione due islamisti radicali interni al parlamento, Mohammed al Kilani e Mustafa al Teriki. Alcuni dei sospettati di vario livello coinvolgono anche il presidente del GNC Nuri Abu Sahmain, figura gradita agli islamisti e creatore dei due gruppi di milizie responsabili del gesto; ma Zeidan lo ringrazia invece per essersi applicato nel rilascio.

Secondo quanto riporta la Reuters, la frattura tra islamisti e non islamisti è rintracciabile anche tra le milizie e nello stesso esecutivo del governo: da una parte le milizie islamiste dell’Est facenti capo alla roccaforte ribelle di Misurata e alle formazioni nominalmente controllate dal Ministero degli Interni, dall’altra quelle non islamiste dell’altra roccaforte, l’occidentale Zintan, e del Ministero della Difesa.

Certo, è anche probabile che le cose siano più screziate del semplice binomio islamisti contro non islamisti, Misurata contro Zintan, Interni contro Difesa: gli elementi disgreganti in Libia sono diversi e non solo di carattere politico – religioso. Le due legittimità – rivoluzionaria e democratica – indicate ancora da Varvelli, l’appartenenza tribale, le spinte federaliste che hanno portato in estate al blocco dei terminali petroliferi dell’Est, l’autogoverno di fatto di città come Misurata, sono altre.

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Ma è fuori dubbio che i due sequestri di ottobre abbiano gettato una luce sui rapporti di forza all’interno della politica libica del dopo Gheddafi e chiarito come anche una sola frase sbagliata, quale quella del Segretario di Stato statunitense Kerry, possa mettere in crisi la stabilità dell’intero impianto politico.


Profilo dell'autore

Alessandro Pagano Dritto
Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.

1 Comment

  • Argomento ostico, se si considera tutte le componenti politiche e non del dopo Gaddafi,argomento che A. Pagano Dritto cerca di sviscerare in maniera esaustiva, grazie alla sua competenza e conoscenza storica della situazione libica. Ottimo articolo.

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