Dall’Africa a Cuba, alla ricerca del soffio vitale

 

di Loredana De Pace

Ashè nella lingua africana Yoruba significa “soffio vitale”, energia del divino che tutto pervade. Ma Ashè è anche il titolo del progetto fotografico – divenuto un libro e un’esposizione itinerante – del medico perugino Paolo Ferrera. “Una vera riscoperta della cubanìa”, così il professor Francesco Pompeo dell’Università Roma 3 definisce il progetto fotografico Ashè di Paolo Ferrera, in occasione della presentazione del libro omonimo, avvenuta lo scorso novembre presso l’Instituto Cervantes, nella Capitale.

In Ashè, Ferrera riesce nel difficile proposito di partecipare, da non praticante, ai rituali delle tre principali religioni afrocubane: la Santeria, il Vodù e il Palo Monte. Il libro, però, non è strutturato per unità tematiche, perché sono le intenzioni conoscitive più che quelle didascaliche a guidare la mano dell’autore. Infatti, le immagini non sono raggruppate per singole religioni, ma “…utilizzate in una sorta di contrappunto, un vaievieni che raccorda gli elementi sempre in modo funzionale rispetto al valore del rito”, commenta Pompeo. E prosegue: “Negli scatti non c’è sensazionalismo e, anche la presenza del sangue degli animali sacrificati durante i riti, sia pure forte, è gestita in maniera equilibrata”.

La centralità del progetto è riservata al valore del corpo che si mette in scena con un obiettivo superiore: attraverso l’alterazione della coscienza, infatti, il corpo raggiunge e si fa raggiungere dal divino. Nel libro c’è anche un incontro a distanza fra le immagini di Paolo Ferrera e il saggio della professoressa Alessandra Ciattini, docente di antropologia presso l’Università La Sapienza di Roma. “Nel testo, spiega Pompeo, la professoressa compie una rilettura della storia culturale cubana sensibile all’aspetto vivente di questi culti”.

Tornando alle immagini, sfogliando il libro – edito per i tipi di Petruzzi – si nota immediatamente l’assenza di sguardi rivolti verso la camera. Questo, perché Paolo Ferrera è stato capace di integrarsi totalmente con l’ambiente, con le diverse e coinvolgenti situazioni rituali alle quali ha assistito, e con i partecipanti delle stesse. In definitiva, per fotografare Ashè, lo spirito divino immateriale, l’autore si è fatto egli stesso incorporeo agli occhi di chi ha fotografato, è divenuto in qualche modo una trasparente parte del tutto.

 

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Raccontaci un po’ di te.
Sono un medico e ho sempre sentito il bisogno di approfondire la conoscenza degli aspetti psicologici, antropologici, sociali e culturali dell’uomo. Nel corso della mia professione ho avuto modo di soddisfare questa necessità in occasione di eventi che mi hanno portato a lavorare in altri Paesi per conto del Ministero degli Esteri e della Croce Rossa Internazionale. Dal 1984 al 1992 sono stato in Pakistan, al confine con l’Afghanistan durante l’invasione sovietica: in quella circostanza la Croce Rossa offriva un servizio di assistenza sanitaria ai mujaheddin feriti che riuscivano a varcare il confine. Negli anni a seguire ho lavorato in Vietnam e in Cina, poi in Mozambico, dove ho trascorso due anni continuativi che hanno lasciato un segno profondo nella mia coscienza. In Africa, infatti, ho vissuto situazioni molto difficili anche dal punto di vista psicologico: la realtà della guerra è inimmaginabile, tremenda. Nulla a che vedere con ciò che viene propinato dai media italiani. Eppure, proprio in quelle difficili circostanze, si avverte un legame non cosciente e molto forte con le radici dell’uomo.

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Dall’Africa a Cuba il passo è stato breve.
In effetti, l’esperienza in Mozambico è stata determinante per spingermi a cercare ancora l’Africa, ma in un altro Paese: Cuba, condensato delle ataviche religioni africane.

Infatti, per via dell’origine della società basata sulla schiavitù, e sebbene sia presente un forte sincretismo fra culti diversi, le tradizioni religiose dei tre principali credi – la Santeria, il Palo Monte e il Vodù – si sono mantenute inalterate nel tempo e nei modi con i quali sono espletate. Tra l’altro, a Cuba la religione pervade tutti gli ambiti della vita: la musica, la cucina, il comportamento, la cultura. La religione è la vita stessa.

Attraverso il culto di queste religioni i cubani cercano l’Ashé, lo spirito divino nelle cose, come nelle persone. Come si rapportano con questa idea di totalità suddivisa in uomo/divinità/natura?
L’uomo fa parte di un tutto e la divinità pervade il tutto. La divinità, quindi, è in tutto. In queste religioni, sia gli esseri viventi sia quelli inanimati sono parte della divinità. Tuttavia non sono animiste o politeiste, al contrario hanno un fondamento monoteistico che le riconduce tutte a un’unica divinità creatrice. La stessa che si può rapportare all’essere umano tramite le entità di collegamento, ovvero i santi, gli animali o il fuoco. Gli esseri spirituali insomma non sono degli dei, ma fungono da tramite fra l’uomo e la divinità.

Come hai conquistato la fiducia dei santoni?
Non è facile partecipare ai riti se non attivamente, almeno secondo alcuni fotografi cubani che ho conosciuto in loco e che non sono mai riusciti a fotografare situazioni di questo genere. La cosa mi ha meravigliato perché io sono stato accettato con naturalezza, forse perché inquadrato più come medico che in qualità di fotografo. La macchina fotografica, poi, non è stata vista come un’intrusione o una violenza, né con curiosità. Infatti, durante i riti non ho mai visto nessuno che guardasse in camera. Questo mi ha permesso di scattare immagini “al naturale”.

Quando si svolgevano – a grandi linee – i riti che hai fotografato?
La maggior parte avviene quando c’è necessità di propiziarsi le divinità, o in occasione di eventi particolari come l’introduzione di una persona al percorso religioso. Le circostanze sono le più varie, quindi i riti si svolgono con una certa frequenza, anche se, per chi li pratica, sono discretamente onerosi perché presuppongono l’acquisto di offerte per le divinità e sacrifici di animali come piccioni o galli, ma pure capre e maiali.

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Ci sono alcuni momenti cardine rappresentati dalle offerte alle divinità, dagli stati di trance o di possessione cui vanno soggetti il sacerdote e alcuni partecipanti.

 I tempi del progetto?
Complessivamente è durato due anni con circa sette mesi di lavoro sul campo, preceduto da un periodo di preparazione teorica sugli argomenti che avrei affrontato a livello fotografico. Immediatamente dopo l’ultimo soggiorno a Cuba ho cominciato la fase di selezione delle immagini. L’amico e fotografo Giovanni Marrozzini mi ha supportato e consigliato nella delicata fase dell’editing del lavoro.

Questa non è durata molto perché avevo preso un impegno con il Comune di Umbertide che ha curato l’edizione del volume e ha prodotto la mostra allestita nell’estate del 2011 presso il Centro per l’Arte Contemporanea della provincia perugina.

Dal punto di vista della ritualità, ilsangue – presente in molte immagini di Ashè è un sacrificio necessario per chiedere alla divinità qualcosa in cambio. Dal punto di vista fotografico, però, è un argomento non facile da raccontare.
Indubbiamente alcune foto sono forti per la nostra sensibilità. Non dimentichiamo, però, che fino a qualche secolo fa il sacrificio veniva praticato anche in occidente. Nella religione africana il versamento del sangue sacrificale rappresenta ancora oggi il momento cardine di ogni rito perché assume l’altissimo valore dell’offerta. Il sangue è vita, di conseguenza diventa il collegamento fra l’essere umano e la natura della quale l’uomo fa parte.

Qual è stato il tuo metodo di lavoro?
Ho cercato di documentare tutto quello che pensavo fosse rilevante nei vari riti, in termini di dettagli e di situazioni di gruppo. Ho colto le espressioni e i movimenti, tradotti poi nel mosso perché rendessero meglio l’idea di cosa stava avvenendo. Inizialmente non avevo una finalità ben precisa sul tipo di lavoro che avrei portato a termine. Ho cercato di conoscere e poi documentare il più possibile. Il fine ultimo – la mostra e il libro – è arrivato dopo.

Ti hanno mai coinvolto personalmente?
Molte volte rivolgevano alla mia persona riti di protezione prima o dopo la cerimonia perché temevano che nel corso dei rituali qualche entità potenzialmente negativa potesse farmi del male.

Lo scatto al quale sei più affezionato?
Sono legato a molte delle fotografie realizzate, ma una in particolare mi restituisce grande emozione: raffigura un sacerdote che tiene stretto a sé il maiale mentre lo sacrifica. Il sangue dell’animale scola sull’uomo per poi andare a finire a terra, sua ultima e prestabilita destinazione. È una scena molto forte, violenta per la cultura occidentale, che però ben rappresenta il significato del sacrificio nei riti afrocubani.

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I tuoi strumenti?
Ho lavorato con una Canon Eos 5D Mark II e con un obiettivo grandangolare 16-35mm, fotografando quasi sempre in ambienti chiusi e molto piccoli in cui l’illuminazione era più virtuale che reale: spesso si trattava di poche candele accese.

Come hai risolto il problema della scarsa illuminazione?
Adattandomi. Non volevo utilizzare illuminazioni aggiuntive artificiali, quindi mi sono arrangiato con la luce che c’era, ho impostato valori ISO molto alti, tempi di esposizione particolarmente lenti e generose aperture di diaframma. Anche perché, usando il grandangolo, non avrei avuto particolari problemi con la profondità di campo.

A Cuba esiste il concetto di liberatoria?
No, è una sovrastruttura occidentale. Lì o ti fanno scattare, oppure te lo impediscono. Quella è la liberatoria. Ad esempio, sto lavorando a un progetto sulla pelea de gallos, la lotta clandestina di galli. Questo genere di foto si può scattare solo durante i combattimenti, alcuni permessi dal governo, altri clandestini e frequentati dalla peggior gente. Una volta, mentre fotografavo le fasi preparatorie, mi sono visto circondare da una decina di brutti ceffi che hanno cominciato a dirmi che dovevo andare via. Fortunatamente ero accompagnato da una persona che conosceva tutti molto bene e che ha spiegato loro le mie buone intenzioni.

Sei credente?
Penso di non essere ateo perché fondamentalmente… Credo di credere in un’entità creatrice. Anche se non saprei quale. Mi sento più rappresentato da un panteismo in cui tutto fa parte della divinità. Questo concetto è importante a mio avviso, perché se fossimo davvero consapevoli del fatto che ciascuno di noi è una parte del tutto, sono certo che il nostro approccio alla vita sarebbe più saggio e più simbiotico.

 

 


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