Confisca dei passaporti e ricatti da parte dei padroni, divieto di circolazione e di licenziarsi; pur di guadagnare qualche soldo da mandare alle proprie famiglie, i migranti nepalesi sono disposti ad accettare lavori usuranti e degradanti al limite della schiavitù.
Arabia Saudita, Qatar, Malesia, Emirati Arabi, Kuwait e Bahrain: queste sono le principali nazioni scelte ogni anno da migliaia di lavoratori nepalesi per cercare un lavoro e una vita migliore. Ad ora il numero ufficiale degli emigrati dal Nepal è di circa 3 milioni; considerando anche gli irregolari, però, si raggiungono i 5 milioni.
Assunti principalmente nell’edilizia e nell’industria pesante (anche se sono frequenti le assunzioni come custodi o domestici), i migranti rappresentano una grande risorsa per il Nepal. Le rimesse inviate in patria – che costituiscono infatti circa il 24% delle entrate dello stato – contribuiscono notevolmente al mantenimento dell’economia locale, attanagliata in un vortice di burocrazia farraginosa, elevata corruzione della classe dirigente e carenza di infrastrutture.
Ma cosa si nasconde dietro tanto lavoro? Dal 2000 ad oggi, stando ad alcune ricerche, sarebbero morti in “circostanze misteriose” oltre 7500 migranti nepalesi, di cui 3500 nella sola Arabia Saudita. Decessi definiti dalle autorità saudite come “naturali”, nonostante le tante testimonianze che incolpano le schiaviste e disumane condizioni di lavoro.
Anche Amnesty International ha preso posizione contro questa piaga; in modo particolare è stata denunciata la politica di disinteresse che le autorità del Qatar stanno portando avanti nei confronti dei lavoratori coinvolti con la costruzione di infrastrutture per i Mondiali del 2022 (scarica qui il report).
Nello specifico, commenta la Fondazione Fratelli Dimenticati: “Condizioni rese ancora più gravi dalla pratica, molto frequente fra i datori di lavoro, di confiscare il passaporto dei propri dipendenti, tenendoli in questo modo sotto continuo ricatto. I lavoratori diventano in questo caso dei veri propri schiavi, perché non possono licenziarsi, muoversi liberamente e lasciare il paese senza il permesso del loro padrone. Inoltre, date le condizioni di estrema povertà in cui vivono, sono costretti ad accettare qualsiasi tipo di condizione di lavoro, pur di guadagnare un po’ di soldi da inviare alle proprie famiglie”.
E proprio la Fondazione Fratelli Dimenticati (info@fratellidimenticati.it) è impegnata in prima linea per combattere, dalla radice, la dicotomia povertà-morte. Ogni giorno. Attraverso attività di sostegno a distanza (qui il progetto in Nepal finanziato con il sostegno a distanza), microcredito, educazione formale, corsi di formazione per donne e progetti agricoli. Sono tre i centri sostenuti dalla fondazione in Nepal, nei villaggi di Bharawal, Chakargati e Biratnagar. Con le offerte del sostegno a distanza tramite la Fondazione Fratelli Dimenticati è possibile permettere ai bambini di questi villaggi, estremamente poveri, di sostenere gli studi, nutrirsi in maniera adeguata e accedere a servizi di assistenza sanitaria.
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