Texas, stanotte verrà “giustiziato” un disabile

 Cosa fa di una grande potenza un Paese civile? Che differenza c’è tra un Paese democratico e uno stato che vive secondo le regole del “più forte”? Sono queste le domande che dovrebbero scuotere, oggi, gli Stati Uniti d’America.

Questa notte, in Texas, è prevista l’esecuzione di Edgar Arias Tamayo, un cittadino del Messico condannato a morte per l’omicidio di un poliziotto nel 1994. Agli occhi della giustizia texana questo è l’unico fatto che conta.

Non conta che nel 2004 la Corte di giustizia internazionale abbia formalmente ordinato agli Usa di riesaminare 51 casi riguardanti cittadini messicani – Tamayo incluso. Non conta che i condannati a morte non fossero stati informati, al momento dell’arresto, che avevano diritto all’assistenza consolare. Non conta che, nel 2013, il segretario degli Stati Uniti John Kerry si sia rivolto al governatore del Texas, Rick Perry, chiedendo di non fissare alcuna data per l’esecuzione di Tamayo al fine di rispettare la sentenza della Corte di giustizia Internazionale.

Non conta, infine, che l’avvocato che allora difese il messicano non abbia fatto cenno degli abusi subiti dal suo cliente e di quella lesione al cranio che rende Tamayo un “ritardato mentale” (dall’età di 17 anni) e quindi, secondo la legge americana, non condannabile a morte.

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Per il governo del Texas non sono questi i fatti importanti. La morte di un poliziotto americano può e deve essere punita in modo esemplare. Così, se questa notte Edgar Arias Tamayo morirà, il Texas non solo contravverrà ad una sentenza internazionale, ma affermerà ancora una volta quanto poco vale la vita di un uomo, di un migrante, in uno stato appartenente ad una delle più grandi potenze mondiali.

Dal 1977, anno in cui si è reintrodotta la pena di morte, sono stati condannati 28 cittadini stranieri. Più uno.

Ilaria Bortot


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