Oggi, quegli stessi monti che facevano di questa regione un paesaggio idilliaco, convogliano i venti che portano i radionuclidi liberatisi dalla centrale nucleare: tutti gli animali sono stati uccisi e le ruspe stanno raschiando il terreno per cercare di decontaminarlo dal cesio 137.
di Piergiorgio Pescali – © riproduzione riservata
La stazione di Tomioka è ancora devastata dallo tsunami che nel marzo 2011 ha colpito le coste settentrionali del Giappone. Una famiglia è tornata nella cittadina e una signora ricorda emozionata i nomi delle famiglie che abitavano le case ormai sventrate. Tre persone con il cartellino ufficiale di riconoscimento ispezionano la zona con il contatore Geiger: 0,04 milliSievert per ora, un valore che rende la zona inabitabile (la dose media di radiazioni assorbite da una persona è di 2-3 milliSievert all’anno). Siamo a tre chilometri dalla centrale nucleare di Fukushima Uno i cui reattori fusi sprigionano ancora quantità considerevoli di radiazioni. Qui, come in altre aree attorno alla centrale, nessuno può oramai abitarci e nessuno ci abiterà per chissà quanti anni. Per chilometri tutto attorno nulla può essere coltivato e la regione è dominio degli animali che si sono inselvatichiti e moltiplicati senza controllo. Maiali, cani, mucche, gatti mangiano ciò che trovano nel terreno assorbendo nel loro corpo dosi massicce di ioni radioattivi che, poco a poco, mitraglieranno il loro DNA, deformandolo e condannandoli alla morte. Il fall-out della centrale di Fukushima è stato più devastante dello tsunami e del terremoto: a Iitate, una quarantina di chilometri all’interno, non vi sono segni delle devastazioni naturali, ma le tende che occludono le finestre delle case dimostrano che gli abitanti hanno orami abbandonato ogni speranza e se ne sono andati. Un tempo Iitate, come altri villaggi della zona, era famosa per l’ottima carne delle mucche che si allevavano e la valle era punteggiata di ristorantini e fattorie. Ma oggi, quegli stessi monti che facevano di questa regione un paesaggio idilliaco, convogliano i venti che portano i radionuclidi liberatisi dalla centrale nucleare: tutti gli animali sono stati uccisi e le ruspe stanno raschiando il terreno per cercare di decontaminarlo dal cesio 137.
Più all’interno, nelle campagne attorno alla città di Fukushima, un tempo considerate il serbatoio dell’agricoltura biologica del Giappone, Sachiko Goto continua a coltivare mele e pesche. Lei è da sempre attiva nel movimento antinucleare, ma nonostante l’incidente del 2011 ammette che sono pochissimi i contadini che condividono le sue opinioni: «La centrale di Fukushima ha dato e continua a dare lavoro a migliaia di persone: prima per il suo mantenimento, ora per la sua decontaminazione. Pochi, in Giappone, si schiererebbero con decisione contro il nucleare» mi dice offrendomi una delle sue pesche. Lei si considera fortunata: rispetto agli altri coltivatori che vendono a centri di distribuzione e a cooperative, ha sempre privilegiato la vendita diretta e questo le ha permesso di limitare i danni: «Abbiamo perso il 30% dei clienti; comprendo le loro preoccupazioni, ma ogni raccolto viene controllato accuratamente e non vi è traccia di elementi radioattivi nei nostri prodotti» afferma mostrandomi il certificato rilasciato dal locale ente di controllo comunale. La Tepco, nonostante non abbia mai mandato alcun tecnico a controllare il terreno, ha risarcito il 50% dei mancati guadagni.
L’alta qualità ha salvato anche la fabbrica di sake Kimpoudi Yasuhiko Niida, la cui famiglia è tra le più antiche produttrici di sake in Giappone: «Il 2011 era una data importantissima per noi: la nostra fabbrica avrebbe compiuto trecento anni di attività; la nube di Fukushima ha offuscato non solo i nostri sogni, ma lo stesso nostro futuro» afferma Niida. Nonostante le difficoltà e la perdita secca del 20% di fatturato, Niida ha preferito non licenziare nessuno dei suoi venti dipendenti. Il segreto del successo della sua distilleria sta nell’uso di materie prime completamente biologiche, una rarità nel campo della produzione di sake giapponese. «Il 10% del riso che utilizziamo per produrre il sake lo coltiviamo noi stessi senza utilizzo di concimi artificiali e fertilizzanti, mentre il restante 90% è riso biologico che compriamo da produttori fidati. Inoltre a turno tutti i nostri dipendenti, compresi gli impiegati, devono andare in risaia per conoscere ogni passo della nostra produzione». Allontanate le nubi oscure della crisi, ora Niida ha un sogno: «convincere entro il 2025, quando compirò 60 anni, tutti i contadini di Tamura-machi a coltivare riso biologico».
Ma non basta allontanarsi dalla provincia di Fukushima per vedere svanire gli effetti della nube radioattiva: a Hippo, un minuscolo villaggio di settecento anime tra i monti della provincia di Miyagi, le correnti atmosferiche hanno fin qui trasportato gli atomi della centrale nucleare, distante una sessantina di chilometri. La famiglia Oota produce miso, la salsa utilizzata per insaporire la verdura. Il marito, laureato in scienze politiche a Tokyo, si è trasferito in questo luogo sperduto assieme alla moglie, anch’essa nata e cresciuta nella capitale e qui vivono con i loro quattro figli. «La fuoriuscita di isotopi radioattivi da Fukushima ha allarmato tutti nel villaggio, ma i contadini si sono rifiutati di riconoscere il problema per paura che i loro prodotti potessero essere rifiutati dal mercato» spiegano i coniugi Oota. E così la maggioranza dei nuovi residenti, accesi antinuclearisti ed isolati dal resto della comunità, se ne sono andati. Pochi sono rimasti e tra loro gli Oota. Dopo mesi di lotte e di litigi, però, la comunità di Hippo ha ritrovato una certa serenità: «Accettando di riconoscere il problema della possibile radioattività ed i controlli sulla produzione, si è riusciti a rassicurare i consumatori che, dopo un periodo di titubanza, oggi stanno ridandoci fiducia» spiega il signor Oota. E così, come simbolo di questa ritrovata tranquillità e come segno di speranza per il futuro dei propri figli, quest’anno, dopo molti anni, Hippo ha celebrato il suo matsuri nel giorno dei morti. La rinascita passa anche attraverso la morte.
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