Cosa resta dell’attivismo a Gaza

Molti degli ‘attivisti’ che sono arrivati a Gaza di recente  sono alla loro prima esperienza di attivismo e molto spesso sono addirittura al loro primo viaggio all’estero. Non sanno cosa voglia dire lavorare in gruppo, né cosa voglia dire rispettare le culture locali. La frase da imparare a memoria per qualsiasi attivista dovrebbe essere: la Palestina è sempre esistita e continuerà ad esistere anche senza di te. Nessuno è indispensabile.

Pescatori gazawi

di Roberta Verde

Pito è un attivista italiano che attualmente vive a Gaza. È stato nei Territori Occupati nel 2012 con l’International Solidarity Movement e fa parte della Rete Italiana ISM (il gruppo italiano di supporto all’International Solidarity Movement). Il suo percorso ricalca quello di molti altri attivisti: l’adesione a progetti di cooperazione internazionale in altri paesi del mondo, nel suo caso il Nicaragua e l’Ecuador, e poi un graduale avvicinamento alla questione palestinese.

“Ho iniziato a interessarmi attivamente della Palestina nel 2010. Sono stato per la prima volta in Cisgiordania nel 2012, prima ad al-Khalil e poi per un breve tempo anche a Nablus. Ora sono a Gaza dal 15 maggio.”

Gli chiediamo subito che cosa lo ha colpito di più della realtà palestinese, rispetto alle altre realtà internazionali in cui aveva operato in precedenza.

“L’incredibile violenza inflitta ai civili palestinesi dagli israeliani, sia da parte dell’esercito che dei coloni. E questo nel silenzio più assoluto della comunità internazionale, comprendendo in essa non solo Stati Uniti ed Europa ma anche i paesi arabi.”

Di fronte a questa violenza e a questo silenzio, come rispondono i palestinesi? Che cosa si aspettano secondo te dagli attivisti internazionali e dai movimenti di sostegno alla Palestina?

L’impressione generale che ho ricavato fino ad ora è che chiedano un maggiore coinvolgimento soprattutto nei nostri paesi di appartenenza. In sostanza un maggiore attivismo a casa nostra, per così dire. Si aspettano che il movimento internazionale sia in grado di agire sui mass media e sui governi dei vari paesi, soprattutto europei e statunitensi, affinché abbandonino le loro politiche di collaborazione con lo stato israeliano.

Possiamo dunque dire che questo sostegno passa soprattutto attraverso la divulgazione di notizie e la pressione esercitata sui nostri governi?

Sì. L’azione divulgativa consiste nel far circolare le notizie – sotto forma di video, foto, resoconti – su quanto avviene quotidianamente in Palestina, notizie che i mass media puntualmente ignorano o censurano. Questo al fine di rompere il muro di silenzio che circonda le politiche colonialiste israeliane e al fine anche di stimolare l’azione politica, che viene esercitata dagli attivisti di ogni parte del mondo e in ogni parte del mondo, e che consiste soprattutto in campagne di pressione sui propri governi e campagne di informazione e di autofinanziamento.

In che modo i social network possono diventare efficaci alternative ai mass media, e quali sono i risvolti negativi di questo tipo di comunicazione?

Un attivista che opera in Palestina si trova ad avere un’enorme responsabilità da questo punto di vista, responsabilità che troppo spesso purtroppo viene sottovalutata. Oggi ormai, sfortunatamente (e sottolineo sfortunatamente), molta gente si informa quasi esclusivamente attraverso i social network, di conseguenza ogni frase pubblicata su una di queste piattaforme finisce per acquisire immediatamente uno status di veridicità e di credibilità. Per questo motivo bisogna filtrare con attenzione le notizie ed evitare di diffondere affermazioni superficiali o non verificate.

Bisognerebbe inoltre saper scindere la propria dimensione personale ed emotiva dalla propria identità di attivista, e non rendere pubblici post personali, frasi dettate dall’impulso o con contenuti emotivi. È responsabilità dell’attivista comunicare un quadro il più chiaro possibile non solo della situazione e degli eventi che si verificano in Palestina, ma anche della figura e del ruolo dell’attivista internazionale.

Sembri avere una visione piuttosto critica dei social network, eppure riconosci che sono efficaci strumenti di divulgazione di notizie. Da dove nasce dunque questa tua diffidenza?

È vero che molte informazioni censurate dalla stampa circolano sui social network, ma il problema è che spesso le notizie acquisite in questo modo vengono dimenticate con la stessa velocità con cui sono state lette. Questo perché le modalità di comunicazione tipiche di questi strumenti non favoriscono la riflessione, ma anzi spingono a spostarsi rapidamente da un post a quello successivo senza mai soffermarsi sui contenuti. Ecco perché ritengo che compito dell’attivista sia anche fornire link ad articoli seri di informazione e di approfondimento, a beneficio di chi desidera capire e conoscere la situazione palestinese in modo più completo.

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Dagli attivisti internazionali che si recano in Palestina, invece, i palestinesi che cosa si aspettano?

Da chi decide di andare in Palestina e condividere con loro le difficoltà quotidiane non si aspettano niente più di quello che già diamo, ovvero solidarietà. La nostra presenza apporta sicuramente benefici alla vita quotidiana di quella porzione di popolazione che si trova a contatto con gli internazionali – i contadini riescono a coltivare la terra, pescatori e pastori non vengono attaccati, i bambini riescono ad andare a scuola più tranquilli etc. – ma sono benefici temporanei e parziali, obiettivi a breve termine che sono solo di corollario a quella che è l’azione principale, cioè il sostegno alla lotta contro l’occupazione attraverso la divulgazione delle notizie e l’azione politica condotta nei confronti dei nostri paesi di origine.

Prima parlavi della distinzione tra dimensione personale e ruolo dell’attivista. È importante che un attivista nella sua opera di divulgazione si limiti a riferire solo sulle azioni politiche o a volte anche esperienze di carattere più personale possono contribuire a costruire un quadro della situazione?

Tutto può contribuire a costruire un quadro della situazione, ovviamente, e per quanto ci si sforzi nessuno che sia coinvolto in prima persona è in grado di dare giudizi puramente oggettivi. Quello che si deve evitare è far passare emozioni e sensazioni personali come notizie. E quello che assolutamente si deve evitare è far passare all’estero il messaggio che l’attivista sia una specie di eroe.

Immagino che una comunicazione efficace e corretta richieda un’adeguata preparazione personale e politica. Che requisiti deve avere secondo te un attivista per poter affrontare l’esperienza in Palestina? Che tipo di competenze e di esperienze consiglieresti?

Il requisito indispensabile è un profondo senso di giustizia. È molto importante poi essere persone calme, non troppo emotive, pratiche, realiste e soprattutto umane. Non è necessaria una preparazione specifica, ma bisogna essere capaci di non lasciarsi travolgere emotivamente dagli eventi di cui si è testimoni, soprattutto nel momento in cui si cerca di fare informazione. Consiglierei comunque di fare dell’attivismo o del volontariato in Paesi politicamente meno complessi e meno violenti prima di partire per la Palestina. Per quanto riguarda la Striscia di Gaza invece raccomando caldamente di fare prima un’esperienza, anche breve, nei Territori Occupati. In ogni caso, credo sia importante pensarci bene prima di prendere una decisione come questa. Devi essere sicuro che sia veramente quello che vuoi. Devi capire bene quali sono i tuoi limiti, cosa sei in grado di fare e cosa no, senza farti influenzare da pareri esterni e senza il timore di essere mal giudicato se la ritieni un’esperienza troppo stressante. Non hai obblighi morali verso nessuno. La frase da imparare a memoria per qualsiasi attivista dovrebbe essere: la Palestina è sempre esistita e continuerà ad esistere anche senza di te. Nessuno è indispensabile.

Per quale motivo consigli un’esperienza nei Territori Occupati prima di andare nella Striscia di Gaza?

Le attività che un internazionale svolge nei Territori Occupati e nella Striscia di Gaza sono differenti. La differenza principale sta nel fatto che nei Territori Occupati c’è una presenza di soldati e coloni israeliani a diretto contatto con i palestinesi, mentre all’interno della Striscia di Gaza questo problema non c’è. Per un attivista operare nei Territori Occupati comporta uno stress quotidiano dovuto a questo contatto diretto con i militari e i coloni. A Gaza invece lo stress nasce non solo dal pericolo costante di un improvviso attacco israeliano, ma anche dal senso di oppressione generato dal fatto di essere più controllati e di avere scarsa libertà di movimento. Non a caso Gaza è stata definita una prigione a cielo aperto. In ogni caso credo che una previa esperienza nei Territori Occupati sia fondamentale per farsi le ossa, per imparare a lavorare in gruppo sotto condizioni di stress e per comprendere meglio la questione palestinese perché, per usare le parole di Edward Said, la Palestina non è solo Gaza.

Quali sono indicativamente le attività in cui sono impegnati gli attivisti in Palestina?

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In linea di massima gli attivisti, soprattutto in passato, hanno sempre principalmente aderito alle attività organizzate sul campo dalle associazioni di sostegno non violento alla resistenza palestinese.

In Cisgiordania, per esempio, partecipano alle manifestazioni popolari, al fianco sia dei Comitati popolari per la resistenza non violenta che di altri gruppi e associazioni; accompagnano a scuola i bambini che vivono in aree in cui sono esposti agli attacchi dei coloni; cercano di arginare con la loro presenza soprusi e violazioni dei diritti umani ai checkpoint; cercano di fermare le evacuazioni e le demolizioni di case palestinesi.

A Gaza invece per lo più accompagnano al lavoro i contadini le cui terre si trovano presso la buffer zone, per evitare che vengano presi di mira dai soldati israeliani; accompagnano i pescatori affinché non vengano attaccati dalla marina israeliana; documentano e danno notizia degli attacchi quando si verificano, nella speranza che la loro presenza costituisca un deterrente per i militari di Israele.

Cosa intendi quando dici “soprattutto in passato”? Non è più così?

Oggi la situazione è cambiata. Molti degli ‘attivisti’ che sono arrivati a Gaza di recente sono mossi quasi esclusivamente da interessi personali. C’è chi è giornalista di professione e aspetta una nuova Piombo Fuso per essere l’unico corrispondente occidentale dentro la Striscia; c’è chi invece cerca solo visibilità sui vari social network, Facebook in primis. Queste persone sono spesso attratte solo dalle azioni ‘eroiche’, nella buffer zone o in mare con i pescatori, perché sono quelle che gli permettono di raggiungere i loro personalistici obiettivi. Inoltre, generalmente sono alla loro prima esperienza di attivismo e molto spesso sono addirittura al loro primo viaggio all’estero. Non sanno cosa voglia dire lavorare in gruppo, né cosa voglia dire rispettare le culture locali. Il più delle volte quindi generano solo attriti e contrasti con gli altri attivisti seri, che fanno sempre più fatica a portare avanti progetti con e per i palestinesi.

Ritieni quindi che il modello di attivismo proposto dai gruppi presenti in Palestina sia fallimentare?

Non esattamente. Personalmente, sono contento del mio lavoro svolto in West Bank con l’ISM, che lì lavora benissimo, e sono anche molto contento di far parte della Rete Italiana ISM, a cui appartengono molti attivisti seri che si impegnano quotidianamente e senza tanti proclami per la questione palestinese.

In passato, fino alla morte di Vittorio, è stato fatto un ottimo lavoro anche a Gaza dagli internazionali, e dall’ISM in particolare. Ma i tempi cambiano e richiedono nuove linee d’azione e nuovi obiettivi. Questo rinnovamento presuppone un lavoro di riflessione e di rielaborazione delle strategie che però non può essere svolto dalle persone inesperte e malate di protagonismo che sono presenti in questo momento a Gaza, persone che tra l’altro tendono a monopolizzare i gruppi con discussioni inutili.

A tuo parere, è possibile che una presenza poco disciplinata di internazionali, o l’ingresso a Gaza di attivisti non adeguatamente preparati, possa in qualche modo danneggiare il movimento di liberazione o la stessa società palestinese?

Non credo che un attivista poco disciplinato o non adeguatamente preparato possa danneggiare il movimento di liberazione o la società palestinese. Gli attivisti non hanno un peso così determinante, perché come ho già detto la Palestina esiste e resiste con o senza la presenza degli internazionali.

Tuttavia credo che una condotta poco corretta da parte di un attivista possa danneggiare l’immagine degli attivisti e dell’attivismo in generale. Molti italiani che sono approdati in Palestina dopo la morte di Vittorio Arrigoni si sono avvicinati all’attivismo sull’onda della reazione emotiva e molto probabilmente avevano e hanno una visione distorta sia della figura dell’attivista che dell’attivismo in Palestina, soprattutto a Gaza. Queste persone contribuiscono a perpetuare questa visione distorta.

Sappiamo che in una situazione di repressione e di assedio prolungato come quella palestinese è inevitabile che si creino fratture e divisioni interne. Come ti poni tu rispetto ai conflitti politici interni alla Palestina?

Come attivista, affianco i palestinesi nella loro lotta contro un’occupazione straniera e a difesa dei diritti umani. Per questo motivo non prendo posizione rispetto ai problemi interni palestinesi. I problemi politici interni fra palestinesi non riguardano gli stranieri e devono essere risolti fra i palestinesi, senza alcuna interferenza esterna. Al contrario, quello di cui i palestinesi hanno bisogno, e quello che infatti ci chiedono, è che ci sia intesa e unità tra i diversi gruppi di internazionali, soprattutto nella Striscia di Gaza.

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Dicevi prima che non è necessario, né sempre auspicabile, andare in Palestina per appoggiare la resistenza palestinese. Quali strumenti ha a disposizione un attivista che voglia sostenere la causa di questo popolo dal proprio paese?

Lo scopo principale che l’attivismo per la Palestina si dovrebbe porre è quello di far capire ai governi di turno che non tutti i cittadini sono addormentati, che esistono movimenti di persone che non accettano nel 2014 che uno stato possa perseguire una politica di occupazione e di pulizia etnica come quella israeliana. Movimenti di persone che sono disposte a lottare per far conoscere la situazione e per coinvolgere più gente possibile. Obiettivo principale a lungo termine è quindi quello di far cambiare politica ai governi dei vari paesi in modo che cambino gli equilibri internazionali, che Israele perda l’appoggio degli altri stati e sia quindi costretto a rinunciare al progetto sionista perché condannato dalla comunità internazionale. Di conseguenza, esistono molteplici possibilità di azione politica – dalla raccolta di fondi, alla divulgazione delle notizie che arrivano dalla Palestina, a qualunque forma di pressione esercitata sui propri governi – per appoggiare la causa palestinese in modo efficace e consono alle richieste della società palestinese stessa.

In particolare, uno strumento molto incisivo per sostenere la Palestina dall’esterno è aderire al movimento BDS (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni). Il boicottaggio è una forma di lotta che se usata con intelligenza può dare risultati impressionanti (ha ad esempio contribuito molto nella lotta contro l’apartheid in Sud Africa) ed è uno strumento che colpisce Israele nel vivo, sul piano del profitto.

Che cosa pensi del turismo in Palestina? Alcune organizzazioni lo sconsigliano, lo ritengono inopportuno. Qual è la tua opinione in proposito?

Se fatto con criterio e buon senso anche il turismo può diventare un’ ‘arma’ utile per far conoscere a più persone possibili cosa succede in questa parte del mondo. Naturalmente dipende dal modo in cui lo si fa. Però escludere il turismo a priori a me sembra una forma di accettazione dello status quo, una sorta di ratificazione dell’occupazione israeliana come dato di fatto incontrovertibile; un po’ come stabilire che nulla può essere cambiato e che quindi non resta altro che evitare quei luoghi in quanto pericolosi. Se è questo che si intende, non sono d’accordo. Anche se riconosco di provare io stesso un senso di fastidio quando vedo gruppi più o meno numerosi di turisti spostarsi per una settimana o dieci giorni tra mille posti diversi accompagnati da una guida, per poi tornare a casa convinti di conoscere la Palestina.

La situazione palestinese è troppo complessa per poter essere inquadrata nel corso di un giro turistico ed è difficile da decifrare anche per chi fa attivismo da casa propria. Quello che è importante è che ognuno dia il proprio contributo nel rispetto e nella consapevolezza delle proprie competenze e dei propri limiti.

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Nei ritagli di tempo Pito scrive anche un blog. È un blog un po’ atipico, composto da lettere o brevi storie in cui, con un linguaggio narrativo e a tratti metaforico, Pito si propone di richiamare sulla questione palestinese l’attenzione anche di lettori che non frequentano i consueti siti politici e giornalistici.


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Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.

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