La paura della diversità e gli effetti della crisi

Nelle democrazie occidentali la crescente ibridazione culturale, religiosa, etnica e linguistica causata dalle consistenti ondate migratorie degli ultimi decenni è ormai un dato di fatto. Altrettanto evidenti sono le ripercussioni di una tale mescolanza di culture sulle popolazioni autoctone, sempre più insicure ed esposte al rischio di tensioni sociali.

Una delle ricerche più interessanti al riguardo è il rapporto “Freedom in diversity. Ten Lessons for public policy from Britain, Canada, France, Germany and United States”, redatto nel 2013 dal Dahrendorf Programme for the Study of Freedom dell’università di Oxford con il supporto di Open Society Foundations. L’assunto di base è che la diversità dovrebbe poter essere accompagnata dal valore della libertà: senza diversità, infatti, non sarebbe possibile scegliere liberamente tra più alternative. Il rapporto verte su dieci macro temi tra cui cittadinanza, educazione, lavoro e rappresentanza politica. Tra gli spunti più interessanti vi è sicuramente un’analisi sul modo in cui si costruisce la percezione sociale delle minoranze, terreno nel quale i media la fanno da padroni. Partendo dalla considerazione che i prodotti forniti dai media devono essere venduti sul mercato e che, di conseguenza, tendono ad amplificare gli aspetti che più accendono l’opinione pubblica, è possibile riconoscere il modo in cui persone e gruppi di individui vengono negativamente connotati.

Un ottimo esempio è quello riguardante l’enorme categoria degli “immigrati”, che viene spesso associata dagli organi di informazione a crimini e terrorismo: c’è persino chi si dedica con devozione ad elencare tutti i “crimini commessi in Italia dai nuovi colonizzatori”. La conseguenza ovvia è il dilagare di sentimenti di ostilità nei confronti dei soggetti coinvolti e della categoria cui (si ritiene) appartengono. Non è un caso, infatti, se lo stesso Ordine dei Giornalisti, insieme alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, abbia sentito l’esigenza di dotarsi di un protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti in genere. Anche se non sempre i fatti sono in linea con i principi, la Carta di Roma promuove una maggior precisione nella comunicazione giornalistica del tutto condivisibile.

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In aggiunta a tutto questo, i temi della diversità e del senso di insicurezza hanno acquisito nuove sfumature da quando la crisi, a partire dal 2008, ha iniziato a colpire l’Europa. A questa relazione si è dedicato un gruppo di ricercatori che ha analizzato il cambiamento di attitudine verificatosi nei confronti degli immigrati nel momento in cui la nostre condizione economica ha iniziato a peggiorare. Analizzando i dati provenienti da sondaggi svolti in 23 diversi paesi (European Social Survey, ESS5-2010), i più alti tassi di insicurezza nei confronti di altre etnie sono riscontrabili nella categoria dei disoccupati e la stessa cosa accade per coloro che hanno dichiarato di aver vissuto, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, un peggioramento della propria situazione economica rispetto ai tre anni precedenti. La (mancata) crescita economica sembra dunque essere un fattore rilevante rispetto ai timori generati dalla convivenza con gli immigrati: i più alti tassi di insicurezza percepita sono stati riscontrati proprio in quei paesi dove si è registrata una maggiore flessione del PIL pro capite, dove cioè la crescita economica ha subito un ridimensionamento più marcato. Tutto questo può apparire coerente con il senso comune secondo cui, in tempi di ristrettezze e scarsità di risorse, ogni potenziale concorrente può essere considerato come una minaccia alla propria sicurezza, economica e non.

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Il dibattito sulle risorse destinate ai migranti è parallelo e molto spesso deforma quella che è la realtà dei fatti. Un recente rapporto della Rete Europea sulle Migrazioni cerca di far luce proprio su questo aspetto spesso trascurato: l’accesso degli immigrati agli strumenti di sicurezza sociale. In Italia, per quanto riguarda le pensioni, i valori percentuali dei non-comunitari sul totale dei pensionati continuano ad essere molto bassi, seppur in forte crescita nell’ultimo triennio: per le pensioni previdenziali nel 2012 si è registrato un valore dello 0.2% sul totale mentre per gli interventi assistenziali si sale di poco, fino all’1%. Secondo lo stesso rapporto, “la preoccupazione di tutelare i diritti previdenziali degli immigrati ha un peso ancora insufficiente nelle decisioni politiche migratorie”.

La questione dell’equiparazione tra cittadini italiani e stranieri riguardo le prestazioni di assistenza sociale, è stata oggetto di un cambio di rotta quando nel 2000 il legislatore ha posto delle restrizioni alla normativa del 1998, permettendo l’equiparazione dell’accesso alle prestazioni assistenziali soltanto per i titolari di carta di soggiorno, un permesso di lungo periodo. E’ stato però l’orientamento giurisprudenziale ad ampliare progressivamente la categoria dei beneficiari anche ai migranti in possesso di un permesso di soggiorno annuale o biennale. E’ anche opportuno ricordare il beneficio demografico che la popolazione immigrata apporta all’Italia: tra i migranti, infatti, la percentuale di ultra-sessantacinquenni è sei volte inferiore a quella italiana.

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Anche questo fa parte del complesso e profondo rapporto di interdipendenza tra immigrazione e welfare. Attualmente dunque, a causa di difficoltà di accesso a prestazioni assistenziali (ma anche per un’età media inferiore rispetto agli italiani), gli immigrati si configurano più come contributori che non come fruitori di prestazioni pensionistiche.

di Martina Romanelli


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