Foto e testo di Valeria Ferraro
Sabato 19 aprile, pomeriggio. Scendendo le stradine in prossimità della torre genovese di Galata, nell’Istanbul europea, tra turisti che affollano i ristoranti e cercano souvenir nei nuovi negozi con prodotti per un hammam casalingo, si arriva alla piccola chiesa nascosta dei SS. Pietro e Paolo appartenente, insieme all’annesso convento, ai Frati Domenicani.
Per quanto meno conosciuta della basilica di S. Antonio di Padova o della chiesa di S. Maria Draperis entrambe sulla nota via dello shopping, Istiklal Caddesi, la chiesa dei SS. Pietro e Paolo è una delle più caratteristiche della zona possedendo al suo interno una biblioteca, luogo conosciuto ai ricercatori e agli studiosi di teologia e filosofia. Tra gli stessi Frati Domenicani c’è chi, essendo anche ricercatore, vive la doppia dimensione dello studioso e del religioso cattolico in terra musulmana.
Nel cortile del convento, al riparo dai rumori e frastuoni della città, Padre Alberto Fabio Ambrosio, nato a Fano, ricercatore in storia del Sufismo, autore di diversi testi sui Mevlevi (più conosciuti in Occidente come dervisci danzanti) e da anni docente in Italia e all’estero, racconta la sua esperienza in Turchia e come vivono la celebrazione della veglia pasquale nella loro chiesa.
Com’è stato l’impatto con gli abitanti di Istanbul?
È un impatto molto positivo che si è però anche evoluto in questi anni. Dopo la fase iniziale (che per me corrisponde agli anni della tesi di dottorato, ed erano quelli in cui tutto e tutti ti sembrano sempre simpatici) sono entrato sempre di più in relazione con queste persone compresi i cristiani locali, con cui parliamo in turco, della mia parrocchia.
A Bakirkoy, nel lato europeo della città.
Sì, a Bakirkoy. Ma ci relazioniamo anche con i turchi di tradizione musulmana. Credo che si tratti di una popolazione estremamente servizievole. Estremamente aperta, oserei dire. Ma aperta nel senso che rimane anche certe volte in superficie. Quindi la relazione rimane, talvolta, un po’ superficiale, o almeno accantonata a degli ambiti che sono superficiali. Detto altrimenti un’amicizia come la concepiamo noi in Italia, o forse anche oserei dire nell’Europa Occidentale, è più rara. Hanno un altro concetto della relazione dove, appunto, quella nostra espressione italiana antica di fare i salamelecchi corrisponde in parte ad una verità. È un popolo che si esprime molto in una cortesia ufficiale e pubblica e, anche nell’amicizia, l’aspetto di questa cortesia è notevole ma, non sempre, ad essa segue un’altrettanta profondità. Va detto che come domenicani siamo ben accolti. Già dall’Impero Ottomano, i domenicani erano stati riconosciuti, come dominiken rahipleri. Anche quelli che ci conoscono nel quartiere hanno molta stima. Ancora più in generale, i cristiani, in questi ultimi anni, vengono rispettati: c’è uno sforzo di salvaguardia della tradizione cristiana, quanto meno a livello politico. Ma a livello giuridico il discorso è più debole.
Potete fare attività sul territorio con la popolazione locale? Prendiamo l’esempio di una celebrazione religiosa come la Pasqua.
Il principio è che noi siamo liberi all’interno delle nostre chiese e, quindi, siamo liberi di celebrare tutti i riti. Qualcuno si azzarda a dire che questo tipo di libertà è più una libertà di culto che una vera libertà religiosa. Talvolta, quello che trovo un po’ complicato, essendo un ricercatore, è il coordinamento tra l’aspetto culturale e quello religioso. Non sempre le nostre attività culturali sono ben viste. Per ritornare alla Pasqua, quando celebriamo la vigilia, la chiesa è aperta a tutti. È chiaro che le nostre chiese non sono stracolme di persone però con un po’ d’impegno stranieri e popolazione locale vengono e partecipano.
Quindi siete anche un punto di riferimento per i viaggiatori.
Sì, sì assolutamente, sempre di più. Viaggiatori o residenti temporanei. Essendo Istanbul una metropoli gigantesca non sempre riesci a trovare le persone quindi, siamo un punto di riferimento. Ad ogni modo è una celebrazione interna alle proprie mura e, quindi, la validità di questi momenti vissuti interiormente non cambia rispetto a quelle di Roma o altre città. Oserei dire che qui, certe volte, dobbiamo arrivare all’essenziale per celebrare pienamente. Anzi non mi dispiace che si celebri, o che io stesso celebri, con minor solennità esteriore. A patto, però, che ci sia dentro, ulteriormente, un vero raccoglimento. E devo dire che effettivamente c’è sempre qualcosa di magico, anche se le nostre celebrazioni dal punto di vista liturgico non sono mai solennissime.
Diventano anche momenti di contatto con i musulmani?
Sì. Molto più il Natale della Pasqua. Talvolta diventano occasione d’incontro quando si celebra il “proprio santo” o il santo patrono della propria chiesa. C’è chi viene per amicizia: sono sempre interessati e curiosi di assistere alla celebrazione, poi rimangono per il rinfresco; l’agape fraterna è un modo di scambio. Poi ci sono le persone che non conosciamo ma sono curiose. Si affacciano e poi rimangono e c’è sempre un modo per scambiare due parole e iniziare un vero dialogo. La nostra chiesa essendo in una zona più protetta, più tranquilla, è anche meno “invasa” da un turismo religioso interno di turchi curiosi.
E i famosi dervisci come si inseriscono in questo dialogo interreligioso?
Sono io che vado da loro. Ovviamente i miei studi fanno sì che tra di loro vi sia una maggiore accoglienza, perché sanno o intuiscono che io almeno abbia delle conoscenze. Questo mi ha aperto le loro porte e i loro cuori, spesso, e devo dire che è un momento di dialogo interreligioso principalmente spirituale: tranne qualche rara volta non siamo mai entrati nel profondo delle questioni. Essendo il sufismouna corrente di dottrina spirituale. È più una teologia del cuore che una teologia dogmatica quella del sufismo. Però sono stato contento di vedere che c’è stato un ritorno, non me l’aspettavo. Quest’anno, per esempio, alla messa dell’Epifania abbiamo accolto un gruppo di sufi che conosco: son venuti e, in religioso silenzio, hanno assistito alla messa; poi abbiamo chiacchierato, gli ho fatto visitare il convento e poi son partiti con molta discrezione e per me è stato un segno importante.
È, dunque, una curiosità reciproca.
All’inizio, fino all’epoca della mia tesi, non volevo avere un vero contatto con gli attori del Sufismo perché volevo rimanere nell’ambito puramente storico. Però dopo la tesi mi sono aperto ad un maggior dialogo. E diversi studenti sono intenzionati a fare tesi…
…sul cristianesimo?
Sì, sì assolutamente.
La sera è lo stesso Padre Alberto a celebrare la messa, con i suoi confratelli, accogliendo gentilmente una piccola comunità internazionale di italiani, francesi, turchi, siriani che a mano a mano arrivano nel cortile. La celebrazione inizia lì fuori, con l’intonazione dei canti e l’accensione del cero pasquale, simbolo della luce divina, suggestivamente portato nella chiesa buia. La serata si conclude con un piccolo rinfresco offerto dai frati in un locale del convento così, tra chiacchiere, succhi di frutta e pasticcini, i nuovi arrivati e quelli di passaggio possono scambiare due parole con chi vive lì.
Nell’uscire, una signora georgiana chiede informazioni su una chiesa ortodossa per la loro veglia pasquale, probabilmente nascosta in chissà quale altra stradina. Ed è proprio questa presenza di luoghi di fedi e genti diverse che incanta ad Istanbul, al di là delle vicende storico-politiche che hanno toccato la vita delle comunità etnico-religiose dopo la fine dell’Impero Ottomano e le recenti continue e rapidissime trasformazioni urbane.
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