“Avevo quattro anni quando fuggimmo. Abbandonammo la nostra casa il 18 giugno 1999. Era il sesto compleanno di mia sorella. Era molto triste e continuava a ripetere: dov’è la mia torta di compleanno?” – Jadran (figlio)
Testo e foto di Valeria Scrilatti
In Serbia si trovano ancora oggi circa 70.000 rifugiati provenienti dalla Bosnia e dalla Croazia, e oltre 210.000 sfollati interni provenienti dal Kosovo. Questo progetto è stato realizzato entrando nelle case e nelle stanze dei centri collettivi nei quali molti di loro ancora risiedono.
Ogni famiglia con il suo trascorso da raccontare, storie diverse e lontane. Storie di un passato, i cui resti sono talvolta appesi alle pareti di cartongesso, vicino alle iconografie religiose del proprio credo; storie di un vivere quotidiano presente nell’arredamento delle stanze, nei copri divano economici e colorati, nei tappeti a fantasia, nei muri color pastello e negli angoli dei soffitti scoloriti dal tempo e dall’umidità.
Il comune denominatore di queste esistenze è stata la fuga, la strada percorsa da tutti loro per arrivare in Serbia.
La riconquista della stabilità inizia dalla dimensione domestica. Il sogno della casa esprime l’ambizione di una vita normale. Qualcuno l’ha conquistata, qualcuno la sta ancora progettando e altri, per diversi motivi, non ne avranno mai la possibilità.
“After the escape” nasce come progetto di ricerca sulla condizione dei rifugiati e come spunto di riflessione sul desiderio di normalità e sicurezza che per qualcuno è ancora oggi la più importante conquista.
“Mia madre vive ancora da sola in Kosovo, mi piacerebbe avere una casa più grande per farla venire qua insieme a noi. I miei figli sono già abituati a questo ambiente. Io lavoro la terra e sono contenta di potermi guadagnare da vivere in questo modo. Non desideriamo tornare, la nostra vita adesso è qui in Serbia.” – Ana (madre)
Il centro chiuderà fra un mese e quest’uomo non ha ancora trovato una soluzione. Vive con due fratelli, la nonna non vedente e la madre inferma a letto.
Nove membri in famiglia. Tre stanze. Nessuna soluzione per uscire dal centro collettivo.
Il caos e le mosche sono entrate nel loro quotidiano. Vorrebbero crescere la bambina in una condizione di normalità alla quale da soli non sono in grado di provvedere.
Dal soffitto pende un nastro “cattura mosche”, presente in molti degli alloggi visitati nel centro collettivo di Smeredevo. Si tratta di una vera piaga per i residenti del centro.
Da 13 anni nel centro, non hanno più piani per il futuro se non la speranza di cambiare alloggio. In lite con i vicini, non vogliono che loro sappiano di questa foto.
Sedici anni di attesa vissuti in questa stanza, senza riuscire mai, con le proprie risorse, a trovare una soluzione definitiva per lasciare il centro. Grazie agli aiuti umanitari, avranno presto una casa.
“Eravamo una famiglia ricca, avevamo tre case in campagna, un negozio nel centro del villaggio, frutteti e vigneti. Producevamo vino e brandy. Eravamo in buoni rapporti con i vicini. Siamo stati una delle ultime famiglie serbe a lasciare il villaggio. L’Esercito di Liberazione del Kosovo circondava il villaggio e i vicini albanesi ci dissero di andare e salvare i bambini. Abbiamo sentito che la nostra intera proprietà fu distrutta durante la notte non appena siamo scappati.”
“Fuggimmo nel 1999 sul trattore con rimorchio. Mio figlio minore era nell’esercito e non so cosa gli accadde. Mio cugino maggiore non voleva lasciare la sua casa e fu ucciso dall’Esercito di Liberazione del Kosovo. Ho tre bellissime nipotine. Sara è la più grande e le piace cantare. Vuole fare la cantante e avere una stanza tutta sua. Anche Ana, vuole fare la cantante. Nevena, la più giovane, adora giocare con le sue sorelle e farsi coccolare dai genitori.“ – Stanoje (nonno)
“Eravamo in buoni rapporti con tutti e non c’erano segni che avremo dovuto abbandonare la nostra casa. Mio zio fu rapito dall’Esercito di Liberazione del Kosovo, ancora non sappiamo cosa gli accadde. Avevamo paura che la stessa cosa sarebbe potuta accadere anche a noi. Così salimmo in macchina e ci unimmo alla coda di sfollati. Pensavamo di tornare presto e non portammo con noi molte cose, solo qualche vestito. Attraversando il Kosovo eravamo spaventati perché sentivamo il rumore di spari attorno a noi.” – Sladjana (madre)
Tamara e Ivana sognano di avere una stanza tutta per loro e di diventare commercianti.
A Cveko invece non importa della stanza ma vorrebbe avere una mucca.
Si sono conosciute nel centro e la stessa esperienza di vita le ha avvicinate.
Lavoro a maglia, uncinetto e chiacchiere in attesa di trovare una soluzione per entrambe.
Teodora ha 10 anni. È nata nel centro e tutti la chiamano “principessa”. Sogna di fare la giornalista e girare il mondo. Secondo loro i valori della tradizione e della fede vinceranno. Per questo credono nell’arrivo di giorni migliori.
Miladinka vive da anni con un forte dolore alla gamba e non vuole farsi visitare. Se andrò dal medico -dice spaventata- me la taglierà!
“Nel Kosovo avevamo un lavoro, in Serbia non abbiamo trovato un posto fisso, solamente lavori occasionali, come coltivare la terra per gli altri. Quasi tutta la nostra proprietà in Kosovo è stata distrutta e non siamo mai andati a vedere cosa ne sia rimasto.” – Ivan (padre)
“Fuggimmo nel 1999. Ero in macchina con uno dei miei figli e la sua famiglia. Pioveva e faceva freddo, noi eravamo senza cibo e spaventati. Ricordo che persi le mie scarpe… Viviamo in due stanze, io dormo nel salotto, Dejan e Dragana dividono la camera da letto con i bambini. Sogno di avere un letto mio così da potermi riposare ogni volta che ne ho bisogno.” – Vera (nonna)
“Quando iniziarono i tumulti uno dei miei parenti fu ucciso in strada dall’Esercito di Liberazione del Kosovo. Fuggimmo nel giugno 1999 con nostro cugino, nella sua macchina. Eravamo in sei e mio figlio minore allora aveva solo due mesi. La fila di macchine, trattori e motocoltivatori con rimorchio era lunga. C’erano barricate lungo la strada, sentivamo gli spari. Pioveva tutto il tempo e noi eravamo spaventati, non sapevamo dove stavamo andando. Ora abbiamo la nostra casa, abbiamo ricevuto una donazione in materiali da costruzione per finirla ma non abbiamo ancora abbastanza soldi per farlo. Viviamo nel seminterrato in due stanze scure e umide.” – Planinka (madre)
“Ho lasciato la Croazia solo con mia madre perché hanno ucciso mio padre e mia sorella mentre lasciavamo la casa. Noi due siamo riusciti a scappare. Mia madre ed io abbiamo passato tanti anni nelle case in affitto, però adesso ho una famiglia – moglie e due figli – e insieme abbiamo costruito la nostra casa.” – Nedad (padre)
“Quando l’esercito e la polizia iniziarono a ritirarsi, capimmo di non essere più al sicuro. C’era panico tra la gente del villaggio, così imballammo le nostre cose sul rimorchio del trattore e ci unimmo alla fila di veicoli. Uno dei nostri cugini, un pediatra, non voleva andarsene. Disse che voleva restare perché qualcuno doveva curare i bambini che rimanevano a vivere lì.
Dopo qualche giorno una donna albanese lo uccise nella clinica. Portava con sé una pistola in un pannolino per bambini. Non spero in una vita migliore qui, perché tutti in Serbia vivono difficilmente. Molte persone sono disoccupate e la maggior parte di quelli che hanno un lavoro non guadagnano abbastanza per i bisogni primari. Vorrei andare all’estero. C’è qualcosa che non capisco: mio nonno, mio padre ed io non abbiamo mai litigato con i nostri vicini albanesi. Quindi perché tutto questo è successo?” – Blagoje (padre)
Con le donne di questa famiglia ragioniamo sul problema di questi giorni: come trovare 5.600 dinari per comprare alla figlia il libro per la scuola elementare.
“Posso darglieli io?” – chiedo all’assistente sociale.
“No, altrimenti nel centro scoppia il caos” – mi risponde lei immediatamente.
“Dopo aver lasciato la Croazia siamo arrivati nel villaggio Gložan perché qua hanno fermato il nostro gruppo di rifugiati. Ci hanno dato alloggio nella scuola locale, dove abbiamo passato un mese, dopodiché abbiamo trovato una vecchia casa abbandonata che abbiamo ricostruito e dove abbiamo passato tre anni in condizioni molto difficili. Nel frattempo abbiamo trovato e comprato un’altra casa, sempre molto vecchia, che abbiamo restaurato in parte, anche se ancora non abbiamo tutto ciò che ci serve per una vita normale. Non abbiamo dei redditi fissi e tutto quello che abbiamo fatto finora è stato realizzato con le nostre mani. Il mio desiderio più grande è di costruire un futuro migliore per le mie figlie, soprattutto di farle lasciare questo villaggio desolato e povero.” – Simo (madre)
“Abbiamo trovato una casa nel villaggio Kusiljevo che apparteneva ad una vecchia signora con la quale abbiamo stipulato un contratto di mantenimento personale fino alla sua morte. La vita con la vecchia signora non è stata facile e la casa che abbiamo avuto da lei non è cosi moderna e nuova, però è la nostra.” – Marinka (madre)
Valeria Scrilatti ha studiato Fotografia e Arti Visive a Firenze. Si interessa di sviluppare progetti legati al rapporto tra identità e territorio. Dopo un periodo di formazione in Germania, negli ultimi anni la sua ricerca si è concentrata su tematiche quali la sostenibilità ambientale, gli stili di vita alternativi e il paesaggio zoologico. Di recente ha iniziato a documentare le problematiche sociali nei Balcani nate in seguito ai conflitti degli anni ’90 e rimaste tuttora irrisolte.
Il suo ultimo lavoro, “Buried paradise”, documenta la speculazione edilizia de Montenegro, paradiso perduto di un paese che nel 1991 si autodichiarò primo stato ecologico al mondo e oggi vittima di un turismo invasivo e negligente.
Attualmente vive e lavora a Roma.
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Europa3 Marzo 2024La maglia multicolore che unì basket, musica e TV per la Lituania libera dall’URSS
- Universali3 Marzo 2024Il vero significato di Bambi (e perché Hitler ne era ossessionato)
- Universali29 Febbraio 2024Hedy Lamarr, la diva di Hollywood che “concepì” Wi-Fi e Bluetooth
- Europa28 Febbraio 2024La tregua di Natale del 1914, quando la guerra si fermò per una notte