Fu uno dei luoghi più prestigiosi delle vacanze sovietiche di ospiti illusti e capi partito. A cominciare dai segretari generali. Oggi ricorda al mondo i 270 mila profughi di una guerra dimenticata. Di Ilaria Bortot e Joshua Evangelista / fotografie di Amin Othman
Frontiere per Venerdì di Repubblica – “Quando c’era ancora l’Urss i miei cugini più grandi si appostavano qui per conquistare le ragazze di mezza Unione”. Mirza, 37 anni e un posto fisso al Ministero georgiano dell’istruzione, non ha dubbi: la stagione estiva di Tskaltubo era il momento più importante dell’anno per tutti i giovani dell’Imerezia. Qui, fino al 1989, centinaia di migliaia di persone venivano ogni anno da tutta l’Europa dell’Est per riposarsi, divertirsi e curare malattie respiratorie e cardiovascolari, grazie alle qualità terapeutiche delle terme locali.
Già negli anni ‘30 la composizione chimica dell’acqua di Tskaltubo – livelli altissimi di radon e azoto mantengono stabile la temperatura intorno ai 35°C – fu al centro di ampi studi idrogeologici degli scienziati sovietici. Nessuna altra fonte dell’intero conitente euroasiatico presentava simili caratteristiche.
Quando Stalin visitò l’area per la prima volta nel 1933, rimase colpito dal fatto che a soli 200 km da Gori, la sua città natale, esistesse un posto in cui l’acqua aveva la stessa temperatura del corpo umano ed era in grado di contrastare oltre sessanta malattie differenti.
Stabilì quindi che li sarebbe nata la città termale del popolo e in soli nove mesi fu costruito un gigantesco palazzo in marmo collegato alle sorgenti “miracolose”. Nasceva così uno dei primi grandi centri benessere dell’Unione, una spa d’eccellenza dove i cittadini sovietici avrebbero potuto beneficiare ogni anno di 20 giorni di cure gratuite.
Nel “bagno di Stalin”, come tuttora viene chiamato l’edificio bianco e imponente al centro dell’area, si sono rilassati tutti i grandi gerarchi dell’Unione e gli alleati più importanti. Ancora oggi circola tra i blog nostalgici la foto di un sorridente Gamal ʿAbd el-Nasser con la moglie e il figlioletto Abdul davanti al resort, in uno dei momenti più floridi dei rapporti tra Russia ed Egitto.
Dei fasti del tempo rimangono solo le fontane, la vasca personale del dittatore, ormai vuota, e un’insegna luminosa posta all’ingresso della struttura che negli anni ’80 si accendeva quando era in arrivo il treno da Mosca colmo di gerarchi pronti per la villeggiatura.
L’ex presidente georgiano Saakashvili, al potere fino a novembre 2013, ha destinato finanziamenti importanti per far rivivere alla struttura la gloria passata: tutta l’area è infatti un viavai di operai intenti a spostare blocchi di marmo da una parte all’altra. Su internet ci sono sempre più siti-vetrina, in inglese e in russo, con tutta la documentazione necessaria per invogliare imprenditori russi, azeri, kazakhi e israeliani a investire in alberghi, piscine e campi da golf. Un marketing turistico di stampo decisamente occidentale che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe fondersi in un contesto di poltroncine sovietiche, busti marmorei e bronzei di Stalin e tappeti rossi una volta destinati all’accoglienza dei moscoviti “importanti”.
Ma c’è un problema, abilmente ignorato dai coupon turistici e dalle schede informative. Dal 1993 gli edifici fantasma di Tskaltubo sono stati occupati da migliaia di rifugiati provenienti dall’Abkhazia e in particolare da Gagra, sul cui massacro la Corte penale internazionale sta ancora indagando. “Siamo fuggiti mentre i separatisti giocavano a pallone con le teste dei nostri parenti trucidati, camminammo per giorni in mezzo alle foreste e questi palazzoni abbandonati erano per noi un rifugio sicuro. Credevamo che saremmo rimasti qui per poco tempo”, racconta una signora anziana mentre aiutandosi con un bastone si dirige verso uno dei dormitori.
Così non è stato. I profughi dall’Abkhazia vivono nel resort da 21 anni nella surreale attesa che il governo stanzi i fondi necessari alla costruzione di case in cui vivere, come è successo a molti dei profughi della guerra del 2008 in Ossezia del Sud, seppur grazie a fondi dell’Unione europea.
A poche centinaia di metri dalle colonne bianche e lucenti del “Bagno di Stalin”, c’è un vecchio hotel con le pareti annerite e le finestre spaccate. Legno marcio sui balconi, tende di fortuna a coprire i buchi e qualche antenna satellitare che sbuca malconcia dai terrazzi. Ai tempi d’oro era un “sanatorio”, ora ci vivono più di 500 persone.
“Per scappare della guerra ho camminato con i miei figli per più di 800 km nella neve e nel freddo. I soldati dietro di noi erano stati chiari: o marciavamo, o morivamo” racconta Giorgi, settant’anni. All’interno del palazzo pareti sventrate, vernice scrostata, vetri rotti, macerie, bambole dimenticate, scarpe spaiate e immondizia arredano quella che un tempo era la hall dell’hotel. Nell’aria un odore nauseabondo di acqua stagnante e fogna. “La pioggia ci entra in casa e le tubature non funzionano. Abbiamo chiuso le pompe dell’acqua potabile perché si mischia con quella putrida e non possiamo farla bere ai bambini”. Niente acqua corrente. Niente gas. Niente ascensore: sono vent’anni che sale otto piani a piedi. Per un attimo lo sguardo si abbassa mentre contempla la sua desolazione. Poi con rabbia indica i nuovi hotel appena costruiti destinati ai clienti del resort, mimando la facilità con cui le cose potrebbero cambiare anche per i rifugiati, se solo qualcuno fosse davvero interessato.
In effetti alcuni cottage per gli occupanti sono stati edificati. Qualche mese fa il governo ha fornito casa a 150 persone grazie agli aiuti dell’Agenzia svizzera per lo sviluppo e la cooperazione. Troppo poco agli occhi di chi, come Giorgi, vive con la convinzione che la maggior parte degli scampati alla guerra morirà, per malattia o vecchiaia, nelle umide stanze degli alberghi di Tskaltubo.
Anche Tamar ha ormai perso fiducia. L’arredamento accorto della sua abitazione rivela i lavori saltuari dell’unico uomo di casa. La carta da parati nuova, il divano foderato, le tende alle finestre sono piccoli ma importanti dettagli che rendono quelle due stanze dignitose e accoglienti. “Vivo qui dal 1992. Prima con i miei suoceri ora con mio figlio, mia nuora e due nipoti. Siamo in cinque e viviamo con 200 lari al mese (circa 80 euro, ndr). Non abbiamo né la doccia né il bagno”. Dietro una tenda colorata sono nascoste le grandi bacinelle di latta che usano per lavarsi. “Prima i bambini, poi noi” spiega, mentre guarda dietro le lenti spesse le icone dorate del patriarca e dei santi.
Negli angoli dei corridoi bottiglie di Champagne ammucchiate ricordano feste passate, momenti felici cancellati da anni di indifferenza da parte dello Stato, “più interessato alle apparenze che alle necessità”, come ripetono quasi tutti gli abitanti dell’hotel.
Al quarto piano, in un salotto piccolissimo ci sono tre donne e Nino, una bambina di quattro anni. Gli uomini, oggi, sono al lavoro. Eka, capelli neri raccolti e risata nervosa, racconta con voce squillante la sua storia: “Siamo scappati lasciando tutto. Oro, gioielli, ricordi di famiglia. Siamo corsi via solo con quello che avevemo addosso. Sotto le macerie abbiamo lasciato gli oggetti a noi più cari consapevoli che li avremmo persi per sempre. La prima volta che sono scappata dall’Abkhazia ho trovato rifugio tra le montagne, in un villaggio arroccato. Qualche anno dopo, però, hanno sparato talmente vicino a noi che il messaggio era chiaro”. Come lei, altri 4165 tra i 270mila profughi presenti in Georgia (su una popolazione totale di poco più di 4 milioni di abitanti) hanno vissuto il fenomeno della doppia o tripla fuga. “Me ne sono andata, sola, con un bambino piccolo che ancora oggi, dopo quindici anni, mi chiede quando potrà tornare a casa. E io non ho il coraggio di rispondergli”. La piccola Nino gioca con una pistola di plastica e sembra non capire di cosa stiano parlando. Lei, dell’Abkhazia conosce solo le storie raccontate dagli adulti.
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