Cari attivisti occidentali, non vogliamo la vostra compassione

C’è un latente sentimento di superiorità che a volte prende le sembianze del paternalismo. Nessuno vuole essere compatito, né vuole avere il ruolo della vittima; la solidarietà ha più valore della pietà. Non etichettateci come “vittime”.

di Mohammad Abu Hajar, attivista siriano e rapper

Noi, nuova generazione di mediorientali immigrati in Europa, veniamo da paesi dove la morte in guerra è quasi diventata un evento banale; ora mi trovo invece in un ambiente dove la guerra è recepita come un evento storico e non come una brutale attualità. Per noi in Medio Oriente, al contrario, la guerra è soltanto un’altra spiacevole realtà con cui conviviamo, come molte altre: occupazione, povertà, dittatura, governi corrotti, emarginazione.

Per me, essere in Europa – dopo aver partecipato come attivista in Siria a una rivoluzione epica che ha mostrato un’incredibile fermezza delle persone ordinarie – è importante per diverse ragioni. In primo luogo, sento di avere il compito di raccontare le storie dei connazionali che ho lasciato alle mie spalle, le storie di una quotidianità fatta di desideri, dolore e momenti di gioia catturati dalle fauci della morte. In secondo luogo, Europa per me significa una piattaforma dove la politica è portata a un altro livello, più avanzato, in cui la libertà di espressione e i diritti umani (perlomeno quelli basilari) sono garantiti. Per me, essere in Europa vuol dire acquisire nuove tecniche e metodi per analizzare gli eventi politici. Tutto questo si aggiunge alla ragione principale della mia presenza qui, un Master in Economia.

Le conoscenza e la cultura che ho incontrato qui in Europa sono estremamente importanti per me. Ma esiste un lato oscuro di questa esperienza. Mentre le dimensioni politiche e sociali della relazione tra autoctoni e nuovi arrivati sono ben coperte da ricerche e trattati accademici, gli aspetti psicologici e personali di questo rapporto sono ampiamente trascurati.

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La ragione di fondo per cui scrivo queste parole è l’esplosiva crescita di un sentimento che non permette a molti, in questa società, di considerarci essere umani pienamente uguali a loro. Non voglio certo generalizzare e non sto parlando dell’ostracismo nazionalista dell’estrema destra. Mi rivolgo in modo particolare a quella varietà di individui liberal ideologicamente a sinistra o cosiddetti umanisti.

Sono arrivato in Europa due anni fa. Avevo una buona preparazione musicale, una laurea ottenuta con il massimo dei voti e una profonda esperienza di attivismo politico (sia nei movimenti palestinesi di liberazione che in quelli operativi nella situazione siriana). Sono arrivato con decine di storie sulla lotta quotidiana per la libertà e per la giustizia; ero pieno di belle idee  sul mettere l’essere umano al primo posto, sull’attraversare i confini dimenticandosi del nazionalismo e sul raggiungere orizzonti più ampi; volevo integrarmi e esprimermi nei movimenti politici locali. Nel mio secondo giorno a Roma partecipai a una manifestazione della CGIL al Circo Massimo e dopo due settimane ero a Napoli su un autobus pieno di attivisti italiani per celebrare la partenza della nave Estelle, diretta verso Gaza con un carico di beni umanitari.

Nel primo e intensissimo anno tutto andava a gonfie vele, la vita politica in Europa mi sembrava più sviluppata e c’erano tantissimi attivisti coinvolti con le cause legate al Medio Oriente. Il fatto di condividere tanti interessi e di occuparsi delle stesse questioni hanno dato una spinta notevole alla mia idea di un’umanità condivisa universalmente.

Andando avanti, iniziai a notare che molte persone erano stranamente entusiaste nel sapere che io sono un rapper. La loro idea, non espressa ma palese, era: “Oh, che dolce, un arabo – poverino – che produce musica rap”. Quell’approccio paternalistico mi ricordava l’infanzia, quando imitavo gli adulti e loro dicevano, con un sorriso di compassione: “sta provando a fare l’uomo”. Lo stesso atteggiamento accondiscendente e compiacente.

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Inoltre ho percepito che per troppi attivisti, noi – attivisti del “Terzo Mondo” – siamo solo numeri in più sulla lista dei contatti che vogliono costruire per poi vantarsene con gli amici, per soddisfare il latente desiderio di giocare a fare l’eroe (e/o diventandolo per procura). Obbiettivo che provano a raggiungere conoscendo “eroi” o diventando testimoni di atti di “eroismo”.

Ogni volta in cui sono stato invitato a partecipare a discussioni politiche ho dovuto rivedere il modo in cui presentare le cause dei miei connazionali dalla Palestina alla Siria o al Bahrain. Mentre io ero preparato a una discussione, ciò che è, quasi sempre, emerso è che il ‘padrone di casa’ dell’evento faceva un monologo per presentare ai partecipanti la propria soluzione – unica e peculiare – per risolvere i nostri conflitti, come se noi fossimo sempliciotti incapaci di risolvere le nostre questioni da noi stessi. Lo stesso problema esposto da Edward Said nel capolavoro “Orientalismo”.

Il rapporto degli autoctoni con i nuovi arrivati può essere riassunta con questa frase: i primi compatiscono gli ultimi. Ma nessuno vuole essere compatito, né vuole avere il ruolo della vittima; anche chi è stato trattato da vittima, in genere, dà più valore al riconoscimento e alla solidarietà che alla pietà. E anche allora, nessuno ama essere etichettato in modo categorico come vittima; è una forma di oggettivazione e dubito che a qualcuno possa piacere essere trattato come un oggetto (di eroismo o di brutalità).

Questa attitudine delle società ospitanti, anche se non è ostile, riflette un latente sentimento di superiorità, anche se presentato in un modo diverso: il problema prende le sembianze del paternalismo.

Ho parlato di questa cosa con molti attivisti ora in Europa ma provenienti da diversi paesi in via di sviluppo; la maggior parte di loro ha detto di avvertire una sorta di pietà da parte degli attivisti occidentali e di esserne profondamente infastiditi.

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Ho posto la stessa domanda a un’attivista occidentale, che ha detto di sentire assolutamente la stessa cosa e di essere consapevole che la maggior parte degli attivisti occidentali tratta i “colleghi del Terzo Mondo” secondo la regola del “devo parlare in nome tuo”. È così che molti attivisti occidentali interpretano il concetto di fraternità con gli attivisti di altri paesi meno sviluppati. Il che è, nel migliore dei casi, poco più di un paternalismo selettivo.

Ciò che ho detto, e metto enfasi su questo, non ha lo scopo di demolire il lavoro degli attivisti occidentali; è la libera espressione dei miei sentimenti, senza alcuna pretesa di infallibilità.

Leggi la versione in inglese su The Sleuth Journal – traduzione di Valerio Evangelista


Profilo dell'autore

Mohammad Abu Hajar
Mohammad Abu Hajar è un attivista, giornalista e musicista siriano. Ha fatto il master in Economia politica alla Sapienza - Università di Roma. Scrive dal 2007.
Mohammad Abu Hajar is a Syrian activist, journalist and musician.
He had his master's in political economics from Sapienza university of Rome; he writes since 2007.
محمد ابو حجر، ناشط، صحفي و موسيقي سوري حصل على درجة الماستر في الاقتصاد السياسي من جامعة سابينزا في روما، يكتب المقالات منذ عام 2007

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