Nel 1983 un giornalista tedesco di punta decide, dopo un’esitazione durata dieci anni, di valicare la frontiera che divide, in Germania, i cittadini tedeschi dagli immigrati turchi. Si “traveste da immigrato”: inizia a farsi chiamare Ali, si mette lenti a contatto scure e si tinge di nero i capelli. Quindi mette un annuncio sul giornale nel quale si dichiara disposto a fare qualsiasi tipo di lavoro. Comincia così, con questa croce sulle spalle, la risalita del calvario dell’immigrazione. In questo passaggio del suo libro “Faccia da turco”, racconta una parte del percorso della sua personale Odissea. L’inchiesta di Gunter è un documento unico sulle condizioni dei milioni di cosiddetti Gastarbeiter, quei i “lavoratori ospiti” che la Germania Ovest assunse negli anni del suo boom economico e sui quali, in parte, si fonda la sua società contemporanea.
Effettivamente in seguito al mio annuncio ebbi alcune offerte di “lavoro”. Si trattava per lo più di lavori molto umili, con un salario che si aggirava tra i 5 e i 9 marchi l’ora. Nessuno di questi impieghi avrebbe avuto lunga durata. Ne ho provati alcuni anche per verificare la mia parte.
Ci fu per esempio da rinnovare una scuderia in un quartiere residenziale di Colonia. Fui assoldato (io Ali) a 7 marchi l’ora per tinteggiare, in equilibrio sulle impalcature, i soffitti dello stabile. Gli altri miei colleghi erano polacchi, tutti operai illegali. Forse non mi era possibile comunicare con loro o semplicemente non volevano parlarmi. Sta di fatto che fui ignorato e isolato. Ricevevo soltanto ordini secchi: “Fa’ questo, fa’ quello: dai, su, alè”. Naturalmente ero costretto a pranzare da solo, lontano dagli altri. Con una capretta che girovagava per la scuderia ero in un rapporto più stretto che con gli altri operai: si avvicinava al mio sacchetto di plastica e mangiava un po’ del mio panino al burro.
E naturalmente, un giorno che l’impianto di allarme dello stabile si arrestò, la colpa fu data al turco. Caddero su di me anche i sospetti della polizia criminale che intervenne dopo lunghe indagini. E così l’indifferenza nei miei confronti divenne ostilità. Dopo alcune settimane mi licenziai.
La mia tappa successiva fu in una fattoria in Bassa Sassonia, nelle vicinanze della centrale nucleare di Grohnde. La contadina e sua figlia, profughe orientali, conducevano la fattoria da sole e cercavano ancora l’aiuto di braccia maschili.
Avevano dato già lavoro a un giovane turco e sapevano quale discorso fargli: non ce ne frega niente di quello che hai combinato. Anche se hai fatto fuori qualcuno non vogliamo saperlo. A noi importa che tu faccia il tuo lavoro. Puoi mangiare e abitare da noi e in più avere anche qualche soldo. Ma i soldi li aspettai invano. In compenso lavoravo dieci ore al giorno a dissodare campi di ortiche e a ripulire canali d’irrigazione colmi di fango. Per quanto riguarda l’alloggio, poi, ero libero di scegliere. La contadina mi offrì un vecchio carro arrugginito parcheggiato davanti alla sua casa oppure una stalla fatiscente e maleodorante che avrei dovuto dividere con il gatto.
Accettai la terza proposta: una stanza in un quartiere in demolizione con il pavimento coperto di macerie che non aveva neanche una porta che si potesse chiudere a chiave. Nella fattoria c’erano alcune stanze calde e pulite completamente vuote.
Fui tenuto nascosto ai vicini. Nessuno doveva denigrare il podere dicendo che era una “fattoria per turchi”. Per me il paese era tabù; non dovevo farmi vedere né dal droghiere né in osteria. Ero considerato un animale utile: ma era anche evidente che per la contadina si trattava di un atto di carità cristiana verso il prossimo. E la sua comprensione verso la minoranza musulmana si spinse addirittura fino al punto di promettermi un paio di pulcini che avrei dovuto crescere dato che non potevo mangiare carne di maiale. Davanti a tanta generosità presi ben presto la fuga. Per quasi un anno avevo tentato di mantenermi a galla accettando i lavori più diversi. Ma se veramente fossi stato Alì non ce l’avrei fatta a sopravvivere.
E sì che ero pronto ad accettare letteralmente qualsiasi tipo di lavoro: cambiai tutte le sedie in una catena di negozi gastronomici e cinematografi di Wuppertal e aiutai il proprietario a rinnovare i suoi bar a Husum, spalai farina di pesce in una azienda di lavorazione ittica e a Straubin, in Baviera, mi cimentai come suonatore di organetto. Per ore e ore ho suonato invano. Ma non ne ero sorpreso. La quotidianità dell’odio verso gli stranieri non era più una novità. C’era piuttosto da stupirsi se non ero oggetto di ostilità. Soprattutto i bambini manifestavano simpatia verso quel singolare suonatore di organetto che attaccato al suo strumento aveva un cartello con su scritto: “Turco senza lavoro, undici anni Germania, vuole qui rimanere. Grazie”, ma venivano subito trascinati via dai genitori. E poi ci fu la coppia di due giocolieri che avevano preso posto davanti a me in piazza del Mercato a Staubing. Anche loro avevano un organetto e nonostante fossi un concorrente mi invitarono nel carrozzone del loro circo. Fu una serata bellissima. Troppo spesso tuttavia le cose andavano meno bene. Come ad esempio quel giorno di Carnevale a Ratisbona. Non è necessario che le osterie tedesche espongano il cartello “Sono sgraditi gli stranieri”.
Quando io (Ali) entravo in una taverna, ero per lo più ignorato. Non potevo ordinare niente. Fu dunque per me già una sorpresa il fatto che in questa taverna di Ratisbona gremita di maschere pacchiane qualcuno mi salutasse con un caloroso salve. “E adesso ci paghi un giro di birra”, disse uno degli ospiti. “Noo”, risposi io. “Voi offrire uno me. Io senza lavoro. Io lavorato anche per voi, io anche contribuire vostro reddito”. Il mio dirimpettaio si fece rosso in viso e si gonfiò come un maggiolino (come spesso fa anche Strauss), poi si scaraventò su di me come un pazzo furioso. L’oste, che voleva salvare il suo mobilio, salvò anche me. Lo sconcertante bavarese fu trascinato fuori dal locale da alcuni avventori. Intanto un altro, che in seguito si sarebbe fatto strada nell’ambiente politico comunale, sedeva al tavolo apparentemente tranquillo e pacifico. Non appena la faccenda fu chiarita tirò fuori un coltello e lo conficcò nel bancone. Io, “lurido porco turco”, dovevo sparire, urlò.
(Da Faccia da turco, Wallraff Gunter, ed. Pironti, tr. di P.Moro)
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Ringrazio Rosanna Conti per la segnalazione, è davvero interessante leggere questo post/articolo.
Vorrei aggiungere altro: quando stavo a Monaco di Baviera nel 1980, i turchi e gli italiani vivevano negli stessi quartieri e sui tram ed autobus si leggevano cartelli che dicevano “attenzione ai pickpocket (borseggiatori) italiani e turchi”.
E poi facciamo noi i razzisti …
Ringrazio Rosanna Conti per la segnalazione, è davvero interessante leggere questo post/articolo.
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