Vademecum per capire la Libia di oggi

 

di Alessandro Pagano Dritto – @paganodritto

L’articolo che segue è stato scritto nella speranza di indurre il lettore a esaminare da ogni punto di vista l’attuale, complesso, scenario libico e trarne poi, liberamente, le proprie conclusioni anche in vista di un possibile nuovo intervento internazionale. Che, è bene chiarirlo subito, nessuna fonte politica ufficiale ha stabilito – nelle modalità prima ancora che nei tempi – al momento in cui questo pezzo è stato concluso, ma altre fonti hanno paventato e preso in considerazione.

A un certo punto il lettore verrà invitato a considerare più nello specifico la narrazione islamista delle cose. Questo è stato fatto non con la subdola idea di suggerire un punto di vista più giusto degli altri, ma perché chi scrive ha pensato che per il lettore medio poco addentro agli affari politici e militari libici quel punto di vista poteva essere il meno immediato da assumere e il più difficile. Non ne vogliano quindi i lettori libici, se eventualmente ci fossero, che non si riconoscessero in quel punto di vista e che ritenessero il loro non espresso altrettanto esplicitamente. Sarebbe opportuno che il lettore si spogliasse poi, già prima di cominciare, di un pregiudizio: quello per cui il termine islamista indichi necessariamente dei religiosi che si oppongono ai non islamisti laici e secolari. Nulla appare più distante dai fatti: il nuovo parlamento libico, per dire, non certo sospettabile nel suo complesso di particolari simpatie islamiste, ha giurato dopo la recita dell’inno nazionale e dei versetti del Corano.

Parlando coi libici è facile sentirsi dire che l’opposizione tra islamisti e non islamisti non è esaustiva, visto che questa non è l’unica distinzione fattibile tra i gruppi presenti sul terreno. Specialmente in Tripolitania le ragioni del conflitto sono più sfumate e abbracciano motivi politici e territoriali molto più che, se mai ve ne fossero, religiosi. Si spera che proprio di questi primi motivi il pezzo riuscirà a dare in una qualche misura ragione.

Altra cosa che deve essere sottolineata – perché forse sacrificata nel pezzo a esigenze di sintesi e chiarezza – è quella dei legami politici e territoriali tra le milizie, i partiti e le città. Il lettore vedrà nominare, legate alle milizie, le città di Misurata, Zintan, Tripoli, così come i partiti politici, islamisti e non, che hanno preso parte al gioco politico sin dalle prime elezioni parlamentari del luglio 2012. La stampa di lingua inglese usa di frequente, a questo proposito, l’avverbio loosely, «vagamente», a indicare che queste milizie e i loro miliziani devono essere considerati sì legati a tal partito e a tale città, ma solo in linea di massima: città e partiti sono insomma riferimenti che devono essere considerati senza velleità di precisione assoluta, perché la realtà è sempre più complessa di quanto un articolo possa rendere conto. E questo articolo tutto vuole fare meno che creare inesistenti compartimenti stagni nella fluidità del reale.

L’ipotesi interventista: il testo di Bernard-Henri Levy e l’iniziativa italiana.

Dai primi giorni del mese di agosto 2014 sembra essersi fatta largo nell’opinione pubblica occidentale l’idea che un nuovo intervento internazionale in Libia sia vicino. In verità si possono osservare delle differenze: se l’indirizzo della politica estera di Barack Obama fa dire al Washington Post che di fatto gli Stati Uniti non si imbarcheranno mai in un intervento militare nel sud del Mediterraneo, qualcuno in Europa osa di più.

Il 6 agosto, per esempio, alcuni siti internet hanno pubblicato un testo del filosofo francese Bernard-Henri Levy in cui si incitano le Nazioni Unite a intervenire in Libia e sbarazzarsi in poco tempo delle milizie islamiste presenti sul territorio libico: «la realtà – scrive Levy – è che una forza internazionale coordinata dalle Nazioni Unite sarebbe accolta a braccia aperte e avrebbe pochi problemi a tenere a bada gli squadroni della morte che ogni giorno seminano tanto terrore pur non essendo affatto rappresentativi della Libia di oggi». Anche se la parola non è mai usata esplicitamente, sembra di poter dedurre che l’intervento immaginato dall’autore del pezzo dovrebbe essere militare: in quale altro modo si potrebbero controllare tanto facilmente gli «squadroni della morte»?

Il testo presenta alcuni punti di interesse: rileva per esempio come nel 2011 la coalizione internazionale che era intervenuta al fianco delle forze ribelli contro i lealisti di Muammar Gheddafi abbia di fatto rinunciato ad assistere poi le nuove autorità nella ricostruzione politica del paese. Levy chiama questo atteggiamento, nel migliore dei casi auspicati, «messianismo democratico»: non si può pensare, insomma, che bastino delle incursioni aeree a creare la democrazia in un paese travolto da una guerra civile e il filosofo suggerisce alcuni punti sui quali, a suo parere, i componenti della coalizione avrebbero dovuto imporre la propria assistenza sin dall’immediato dopoguerra. Non l’hanno fatto e ora nel quadrante dell’orologio libico «mancano cinque minuti alla mezzanotte».

Da sinistra: il Primo Ministro italiano Matteo Renzi col Presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi. Renzi è andato in visita ufficiale al Cairo il 2 agosto 2014

Anche la politica europea ha dato qualche segnale in questo senso. Il 2 agosto il Primo Ministro italiano Matteo Renzi ha annunciato dall’ambasciata del Cairo, Egitto, dove si trovava in visita ufficiale, che al vertice NATO del 4 e 5 settembre in Galles l’Italia metterà sul tavolo proprio la questione libica.

Uno scenario troppo semplificato? Ma è davvero condivisibile la semplicità dell’operazione immaginata da Levy e il fatto che – come scrive il filosofo – la Libia accoglierebbe «a braccia aperte» questa seconda operazione internazionale? In realtà, prima di avallare questo giudizio, sembra opportuno tenere conto del contesto politico e militare, sensibilmente diverso rispetto al 2011.

Nel suo testo Levy parla di un solo nemico di cui sbarazzarsi, quello, per usare l’espressione corrente, «jihadista». E pare mettere sullo stesso piano i «fanatici religiosi», come li chiama, responsabili dell’assassinio dell’attivista Salwa Bugaighis e gli islamisti usciti sconfitti e ridimensionati dalle ultime elezioni parlamentari: specialmente quest’ultimo risultato dimostrerebbe che «la Libia, in altre parole, non è un paese di fanatici islamici». Se ne deduce che in Libia si stia combattendo un unico conflitto il cui fronte separi nettamente jihadisti e antijihadisti; una dicotomia che appare troppo semplicistica.

Innanzi tutto occorre precisare che in Libia si stanno combattendo al momento due conflitti autonomi anche se vagamente connessi tra loro; e questo per tacerne un terzo, più distinto e separato nella regione meridionale del Fezzan, che ha avuto il suo apice ai primi del 2014 e che è stato almeno in parte ridimensionato dopo un breve periodo. Gli altri due conflitti riguardano principalmente la fascia costiera della Libia e ne sono epicentro due città: rispettivamente, Tripoli e Bengasi.

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Il contesto militare della Libia orientale: Bengasi.

Il Generale Khalifa Hafter. La sua Operation Dignity non è riconosciuta dalle autorità di Tripoli, anche se il nuovo parlamento, insediatosi a Tobruk per motivi di sicurezza, parrebbe di fatto sotto la sua protezione.

Il primo conflitto a scoppiare è stato quello orientale di Bengasi, dove in maggio le forze del generale Khalifa Hafter – ex gheddafiano della primissima ora poi passato all’opposizione nel 1988 e ritornato in Libia dagli Stati Uniti nel 2011 – hanno lanciato la cosiddetta Operation Dignity. Obiettivo dichiarato dell’operazione era – e rimane, perché è ancora in corso – l’eliminazione della milizia islamista Ansar al Sharia, sorta agli onori della cronaca internazionale nel settembre 2012 con l’uccisione dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens e di altri suoi concittadini. Da allora il gruppo – o, al posto suo, non meglio specificati «islamisti» – è stato accusato degli assassinii di moltissimi militari e attivisti, la più celebre tra i quali è forse Salwa Bugaighis, volto di primo piano dell’insurrezione del 2011 sin dai primi giorni delle proteste di Bengasi. Bisogna rilevare che in pochissimi – forse nessuno – di questi omicidi è stato possibile accertare un responsabile, ma le vittime sono spesso state ritratte come oppositori delle milizie islamiste e della Fratellanza Musulmana. Attualmente Ansar al Sharia collabora con altre milizie islamiste e il gruppo ha assunto il nome di Benghazi Revolutionaries’ Shura Council.

Tripoli non riconosce come interlocutori ufficiali né questo gruppo islamista né il generale Hafter; al progetto di quest’ultimo ha comunque aderito una parte probabilmente consistente dell’esercito libico, sul quale le autorità ufficiali hanno, per recente ammissione dello stesso Capo di Stato Maggiore, scarsissimo controllo.

 

Il contesto militare della Libia occidentale: Tripoli.

 

Miliziano all’aeroporto internazionale di Tripoli. Gli scontri nell’area sono iniziati il 13 luglio 2014.

Dal 13 luglio scorso invece, anche la capitale si è ritrovata scossa dai combattimenti in atto tra milizie: alcuni gruppi provenienti principalmente dalla città di Misurata hanno lanciato una propria operazione, Libya Dawn, contro le milizie di Zintan che dal 2011 controllano a Tripoli l’aeroporto internazionale e altre strutture.

Per capire la situazione odierna di Tripoli bisogna sapere che nell’agosto 2011 la capitale fu sottratta ai lealisti con un attacco congiunto di diversi gruppi ribelli, ognuno dei quali è poi rimasto in controllo di alcune aree. La maggior parte di questi gruppi proveniva dalle due città che nei precedenti sei mesi di guerra avevano espresso le più forti unità di combattimento: appunto Misurata, città costiera della Tripolitania centrale, e Zintan, città invece arroccata tra i monti Nafusa nella zona occidentale della regione. In linea d’aria Tripoli si trova in mezzo alle due città e questo spiega l’accerchiamento dell’agosto di tre anni fa.

«Islamista»: una parola, due valenze.

Il caso della Libia attuale è uno di quelli in cui le parole possono portare a uniformazioni che allontanano l’osservatore dalla realtà dei fatti. Sia le milizie di Misurata che Ansar al Sharia a Bengasi potrebbero infatti essere etichettate con l’aggettivo «islamista», ma occorre specificare che il vocabolo deve avere qui due valenze diverse. Le milizie misuratine sono islamiste nel senso che Misurata è considerata la roccaforte libica del movimento dei Fratelli Musulmani, espressisi nello scenario politico nazionale col Justice & Construction Party (Partito di Giustizia e Costruzione, JCP); Ansar al Sharia ha invece sin da subito negato la validità del gioco democratico ed è quindi un gruppo extraparlamentare senza nessun riconoscimento u
fficiale, che progetta di fare della Libia uno stato islamico sul modello di quello recentemente dichiarato tra Iraq e Siria.

Il piano politico: il primo parlamento (GNC, luglio 2012 – agosto 2014).

L’ormai ex presidente del parlamento – il decaduto GNC – Nuri Abu Sahmain. Succeduto a Mohamed Magarief in seguito agli effetti della Political Isolation Law, sotto la sua guida il GNC ha avuto una forte caratterizzazione islamista.

Ma il piano militare non basta per capire la complessità del panorama libico sul quale si sta considerando di intervenire: fondamentale è anche quello politico. Il mese di agosto ha visto la fine definitiva del primo parlamento eletto nel dopo Gheddafi, quel General National Council (Consiglio Nazionale Generale, GNC) nato dalle elezioni del luglio 2012. Era questo un parlamento nato con una maggioranza relativa non islamista – il termine «secolarista», a volte usato per indicarla, porterebbe fuori strada – rappresentata dal gruppo della National Forces Alleance (Alleanza delle Forze Nazionali, NFA) e una maggioranza assoluta invece islamista, così composta: il JCP dei Fratelli Musulmani come gruppo dominante, altri gruppi minori e a volte più radicali e infine un centinaio di deputati indipendenti ma considerati in buona parte vicini alle posizioni islamiste. Vicini alle forze non islamiste risultarono invece l’esecutivo – il cui più longevo rappresentante è stato fino ad adesso l’ex Primo Ministro Ali Zeidan, in carica per sedici mesi – e il primo presidente del parlamento Mohamed al Magarief, ma nel tempo la maggioranza assoluta islamista riuscì a ottenere il controllo del parlamento. Decisiva fu, secondo diversi analisti, la Political Isolation Law (Legge di Isolamento Politico), una legge emanata in un contesto di forte tensione nel maggio 2013 con l’obiettivo dichiarato di depurare anche per il futuro la politica libica dagli ex gheddafiani: nella pratica questa legge finì col colpire molti esponenti non islamisti dello scenario di quel momento, tra i quali i vertici della NFA e lo stesso Magarief, che venne sostituito alla guida del parlamento dall’islamista Nuri Abu Sahmain. Vani invece si sono rivelati i tentativi di controllare il sia pur fragile esecutivo, tuttora in mano a un ex ministro del governo Zeidan, Abdallah al Thanni.

Se dunque Misurata era la città che rappresentava la maggioranza assoluta islamista del vecchio parlamento e soprattutto la Fratellanza Musulmana, Zintan e i suoi miliziani si schieravano con la maggioranza relativa e l’esecutivo non islamisti. Come si è detto, entrambe le fazioni erano schierate a Tripoli dall’agosto 2011 e in controllo di aree sensibili della città come per esempio l’aeroporto internazionale.

Il piano politico: il secondo parlamento (HOR, dall’agosto 2014)

7. Il Primo Ministro ad interim Abdallah al Thanni, ex ministro del governo Zeidan. L’esecutivo, composto per lo più da elementi antiislamisti, ha funzionato da contraltare al vecchio parlamento islamista. Il successore di al Thanni dovrebbe essere deciso, secondo quanto stabilito dal nuovo parlamento, da elezioni popolari.

Il 4 agosto dunque si insediava il nuovo parlamento, la House of Representatives (Casa dei Rappresentanti, HOR), frutto delle elezioni del precedente 25 giugno. La sfiducia che già da tempo aveva circondato le istituzioni e il clima di incertezza in cui si svolgevano le nuove elezioni – la Operation Dignity era già in corso, Salwa Bugaighis verrà uccisa la sera stessa dopo essersi recata in cabina elettorale, suscitando molta impressione nell’opinione pubblica – non favorirono l’affluenza e alla fine dei conti si vide che solo circa 630.000 libici su 1.509.218 registrati erano andati a votare. L’insediamento, stabilito dall’uscente GNC a Tripoli, avvenne invece a Tobruk, cittadina a pochi chilometri da Bengasi che alcuni vedono come il feudo dell’antiislamista Hafter. La ragione avanzata per questo cambiamento, per la verità abbastanza plausibile, fu che né Tripoli né la prima città designata, Bengasi, fossero abbastanza sicure per la cerimonia; ma il risultato effettivo fu che il GNC e la componente islamista della HOR non parteciparono alla consegna dei poteri, cui invece presenziarono esponenti delle istituzioni internazionali e rappresentanti dell’esecutivo. Su 188 parlamentari della HOR, furono solo 26 a non partecipare – compresi i dieci eletti a Misurata – e questa fu considerata la prova definitiva di quanto già si era sospettato all’indomani delle elezioni: il nuovo parlamento – composto solo da indipendenti come imponevano le nuove regole per la candidatura – era ora a maggioranza non islamista e dunque gli islamisti ne perdevano il controllo.

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In pochissimo tempo la HOR nominava il suo presidente, Ageela Issa, e ordinava un cessate il fuoco a tutte le parti in lotta. Ben lungi dall’essere rispettato, questo otteneva però l’effetto di richiamare in Libia, su esplicita richiesta parlamentare, una delegazione della United Nations Supporting Mission in Libya (Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL) il cui staff era stato evacuato all’inizio degli scontri di Tripoli. A permettere logisticamente l’operazione, l’unica ambasciata occidentale – Stati Uniti inclusi – a non aver mai abbandonato la capitale libica da luglio: quella italiana dell’ambasciatore Giuseppe Buccino, che secondo quanto riporta il suo Ministero degli Esteri è impegnata in una costante attività di dialogo tra le parti.

La versione islamista: i Fratelli Musulmani.

Un’ultima cosa sulla quale varrà la pena concentrarsi al fine di capire cosa stia accadendo in Libia è la narrazione islamista e misuratina dei fatti. È stata recentemente bene espressa da almeno quattro testi: in ordine cronologico, un pezzo di Arturo Varvelli per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), un aggiornamento di Mohamed Eljarh per il blog Transitions di Foreign Policy, un articolo di Sasha Toperich per l’Hufftington Post e uno di Monkey Cage per il Washington Post.

Mohamed Sawan, leader del JCP, braccio politico della Fratellanza Musulmana. La città di Misurata è considerata il feudo della Fratellanza libica e detiene alcune tra le più importanti milizie del dopoguerra. Si oppone a Zintan, altro importante polo ribelle del 2011, di caratura invece antiislamista.

Dal 4 agosto gli islamisti si sono ritrovati al contempo con una rappresentanza politica ridottissima e con un generale antiislamista che nell’Est ha creato una forza militare notevole. La preoccupazione della Fratellanza Musulmana è proprio quella che, finiti i conti con Ansar al Sharia, Hafter possa iniziare ad allargare lo spettro dei propri nemici dichiarati e unificarli sotto l’unica globale, omnicomprensiva, etichetta di «islamisti»: non ci sarà più alcuna differenza tra le milizie legate alla Fratellanza e Ansar al Sharia. Non bisogna del resto spostarsi di molti chilometri ad Est per capire a chi le prime possano paragonare direttamente il generale: al presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi, che nell’agosto 2013 deponeva con notevole spargimento di sangue il presidente islamista Mohammed Morsi e instaurava in Egitto un nuovo governo militare. Scrive l’analista Monkey Cage, che ha avuto modo di parlare direttamente con Hafter: «Facendo suo il tono e il linguaggio dell’ex generale egiziano, il Presidente Abdel Fattah el Sisi, l’obiettivo che Hafter ha considerato di raggiungere va ben oltre lo sfratto delle milizie islamiste da Bengasi e arriva fino all’espulsione della Fratellanza Musulmana dalla Libia. Il GNC è al centro di questo progetto: «Si suppone sia democratico, ma è dittatoriale», mi ha detto in giugno. Lui non fa alcuna distinzione tra Ansar al Sharia e le formazioni «registrate» come le Libyan Shield One e le Rafallah al Sahati Companies. Esclude ogni possibilità di compromesso: «Per loro ci sono tre possibilità: la morte, l’espulsione dal paese, la prigione»».

Ora come ora, la Fratellanza si trova dunque compressa tra antiislamisti armati a Est e antiislamisti armati a Ovest, in linea di principio uniti tra loro proprio dal nemico comune islamista, e sta cercando di farsi spazio a Ovest limitando la forza politica e militare dei guerriglieri di Zintan e dei loro gruppi politici di riferimento: «Per la Fratellanza Musulmana è una questione di sopravvivenza», commenta Toperich considerando gli scontri di Tripoli.

Spiega Mohamed Eljarh: «Ne risulta che gli islamisti hanno ora optato per tattiche più estreme e non ortodosse, nel tentativo di fare una sorta di buon affare che garantirebbe loro un ruolo nella Libia del futuro. Nelle loro recenti discussioni con i diplomatici europei i leader della Fratellanza Musulmana hanno detto che concluderanno il loro assalto all’aeroporto solo una volta che Hafter avrà concluso le sue operazioni militari. Sembra stiano chiedendo al nuovo parlamento e alla comunità internazionale di offrire loro assicurazioni e garanzie attraverso il dialogo politico e un processo politico inclusivo. In cambio, comunque, la maggioranza dei libici, il nuovo parlamento e la comunità internazionale si aspetteranno che gli islamisti accettino la volontà espressa dal popolo libico attraverso il voto e che rinuncino all’uso di tattiche non ortodosse quali l’impiego di milizie armate per influenzare il processo politico».

La versione di Misurata: i ribelli del 2011.

Ma la battaglia in corso a Tripoli e l’operazione Libya Dawn hanno un valore che va oltre quello strettamente politico della sopravvivenza della Fratellanza Musulmana. Le radici di questo valore scendono dritte fino ai mesi dell’insurrezione del 2011 e del pesante assedio subito dai misuratini ad opera delle truppe lealiste di Gheddafi: a torto o a ragione che sia, tra le truppe di Zintan e di Hafter si nascondono secondo i misuratini ex miliziani lealisti che rischiano di compromettere il sacrificio scontato dalla controparte ribelle durante la guerra. Scrive sempre Cage: «Ma un ulteriore livello [di conflitto] sussiste tra residui del vecchio ordine – ex uomini della sicurezza, ufficiali in ritiro o di lungo corso, tecnocrati dell’era di Gheddafi – e nuova, più giovane rete di autoproclamati «rivoluzionari», spesso islamisti, che erano imprigionati o esiliati quando comandava il dittatore». Insomma, dal punto di vista dei combattenti di Misurata si tratterebbe di difendere una rivoluzione dalle forze controrivoluzionarie rappresentate da Hafter e dai guerriglieri di Zintan che pure, come loro, questa rivoluzione l’hanno fatta.

Conclusioni su un intervento facile «antijihadista».

Concludendo, si ritorni un attimo al testo di Levy dal quale questo articolo ha mosso i primi passi: chi in Libia accoglierà un intervento internazionale, specie se militare, «a braccia aperte»? E quanto sarà facile indirizzarlo solo contro i jihadisti, che quindi non sono da per tutto ma limitati in una precisa area?

Lo accoglieranno magari, nella ritrovata armonia tra parlamento ed esecutivo, le autorità di Tripoli alle quali le Nazioni Unite hanno sempre dato e continuano a dare credito, le stesse autorità che già, con grave disappunto dell’allora vivente GNC, si erano rivolte poco tempo fa al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e hanno recentemente lanciato un nuovo appello; potrà forse accoglierlo Hafter, contro il quale nessuno si è apertamente schierato, visto che fa il lavoro sporco di opporsi militarmente a un gruppo che gli Stati Uniti in testa considerano terrorista; potranno forse accoglierlo, quindi, le milizie di Zintan e il gruppo della NFA, nell’ottica di un’alleanza sempre comoda con una Operation Dignity, diciamo così, di lungo respiro.

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Oltre tutto un’ulteriore complicazione potrebbe risultare dall’insediamento del nuovo esecutivo, che la HOR ha deciso avverrà in data ancora sconosciuta tramite nuove elezioni popolari.

Ma bisogna anche chiedersi come potrebbe agire la Fratellanza Musulmana, stretta tra due fuochi e con una rappresentanza politica ai minimi storici, con l’esempio della repressione di Sisi e del bando ufficiale della controparte egiziana il 9 agosto 2014. Varvelli sottolinea che l’atteggiamento della Fratellanza verso Ansar al Sharia non è stato esente da ambiguità, ma anche che la discesa in campo manu militari di Hafter a maggio ha definitivamente polarizzato una situazione che già era polarizzata nelle stanze della politica. La Reuters inoltre ha rivelato tempo fa che secondo gli egiziani alcuni transfughi della loro Fratellanza avrebbero raggiunto le formazioni islamiste ribelli – Ansar al Sharia e alleati – oltre confine nell’Est libico.

C’è il rischio, insomma, che non sia poi così facile come sostiene Levy pacificare la Libia, specie con un intervento militare esterno sullo stile del 2011. Si rischierebbe un effetto domino che potrebbe trascinare almeno parti della Fratellanza, piacciano o no le sue istanze, in braccio a formazioni più estreme e trasformare inoltre ex ribelli vicini a un partito politico islamista – e nemmeno tra i più estremi della scena – in ex ribelli vicini a un gruppo che ha rifiutato dall’inizio le regole democratiche e ogni rappresentanza parlamentare. E fino a che punto poi ex ribelli che nel 2011 semplicemente difendevano la propria città assediata dalle truppe lealiste di Gheddafi accetterebbero ora di vedersi costretti a scegliere tra un islamismo di modello IS e un ritorno – stando a quanto loro stessi sostengono – degli ex gheddafiani, questa volta sostenuti dall’estero?

Intervento internazionale: un’ipotesi complessa.

C’è tuttavia chi non esclude del tutto un intervento incisivo e persino armato, a tre anni da quello del 2011, ma lo inquadra comunque in un’ipotesi più complessa e sfumata di quella di Levy. L’italiano Arturo Varvelli e il libico Mohamed Eljarh, per esempio, hanno espresso, da questo punto di vista, due pareri tra loro complementari: quello esterno e quello interno alla Libia.

Scriveva Varvelli in giugno: «In realtà gli interessi occidentali dovrebbero essere opposti: tenere l’islam «moderato» all’interno di un processo di dialogo e isolare politicamente l’islam jihadista. Tuttavia la posizione di Stati Uniti ed Europa è già stata troppo equivoca verso Haftar. La strada più breve per un appoggio militare potrebbe già aver affascinato servizi di sicurezza occidentali che assisterebbero o perlomeno tollererebbero l’aiuto fornito da Egitto e paesi del Golfo. Una stabilità libica duratura può essere conseguita solo con il confronto politico e delle componenti locali e regionali. È una strada molto più impervia ma l’unica che non conduca a uno stato fallito o a una nuova dittatura». E poi aggiungeva, pensando alla comunità internazionale: «Ma quale potere di deterrenza può avere la comunità internazionale? Difficile far leva su nuove sanzioni (blocco dei beni di esponenti libici? Blocco delle importazioni quando già sono ridotte al minimo e si aggrava la nostra dipendenza?). Per paradosso l’unica misura credibile sarebbe la minaccia di un intervento esterno, un’Europa in grado di giocare un vero «bluff» programmando un serio intervento di peackeeping e correndo il rischio di andare fino in fondo con l’opzione boots on the ground e, al contempo, di lasciare spazio all’unica via di dialogo politico, la convocazione di una conferenza o di un dialogo nazionale sotto un più deciso controllo esterno».

In luglio invece così scriveva il libico Mohamed Eljarh: «Per prima cosa il parlamento potrebbe adottare un ruolo neutrale nei continui scontri armati e tentare di mediare tra le forze di Misurata e Zintan che si stanno battendo a Tripoli. Il parlamento potrebbe anche accogliere qualsiasi elemento islamista moderato e portarlo al tavolo delle trattative a Bengasi. Rimanendo neutrali i parlamentari potrebbero avere la possibilità di concordare il cessate il fuoco e portare entrambe le parti al tavolo delle trattative. Non potranno farlo senza il supporto della comunità internazionale. Le fazioni in guerra non tratteranno facilmente perché la situazione è ai loro occhi a un livello di parità. Se i paesi occidentali riuscissero a combinare la persuasione diplomatica con le minacce di un intervento militare sullo stile di quello del 2011 e bombardamenti aerei mirati contro i terroristi, comunque, potrebbero forse convincere le fazioni in Libia a considerare il compromesso. Il nuovo parlamento deve avvantaggiarsi del fatto che il Regno Unito stia al momento presiedendo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’Inghilterra si è fino a ora sforzata di mediare tra le milizie in Libia. Il parlamento dovrebbe consolidare questo legame e spingere le Nazioni Unite a interpretare un ruolo più incisivo nel conflitto. Se la comunità internazionale fallisse nel gettarsi nella mischia – come i recenti avvenimenti suggeriscono potrebbe accadere – allora il nuovo parlamento sarebbe costretto a scegliere una parte del conflitto. Questo secondo scenario porterebbe il paese a un’ulteriore destabilizzazione e a una prolungata guerra civile e distruggerebbe ogni possibilità che il parlamento ha adesso di gettare le basi di uno stabile, democratico, processo politico». Il tempo dirà se e quanto Varvelli e Eljarh avranno visto giusto.


Profilo dell'autore

Alessandro Pagano Dritto
Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.

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