La guerra a due passi da casa

Dopo 10 minuti buoni di camminata ci troviamo di fronte ad una fabbrica abbandonata caratterizzata da un monotono colore grigio-nero, cavi metallici e gru ormai dismesse e inutilizzate. Nello spazio interno, tra prefabbricati, container e magazzini ci vivono 200 persone, 60 bambini in tutto di cui 4 disabili. Sono famiglie scappate da Slovyansk e Kramatorsk. Vivono in due ampie tende coi colori della bandiera: un blu intenso diviso a metà da una striscia orizzontale gialla. Dormono in un largo magazzino adibito a dormitorio. La parte sinistra per le famiglie, la destra per single, ragazzi/e o persone scappate sole dal conflitto. In una delle tende raccolgono vestiti, cibo in scatola e sono presenti numerosi tavolini per mangiare. Tantissimi volontari, anche giovanissimi portano ogni giorno degli aiuti … giochi per i bambini, vestiti, medicinali, cibo, prodotti per l’igiene. Alcune persone hanno trovato un lavoro a Kiev, qualcuno ha affittato un appartamento in centro. Altri hanno proseguito verso Ovest, la zona del paese considerata più sicura ora come ora. I panni sono stesi tra due blocchi di cemento ed una gran quantità di legna è ammassata negli angoli del cortile. Sguardi stanchi invadano l’aria fino a stamparsi sugli occhi dei bambini che ti fissano curiosi. Due bambine stanno lavando i piatti in un lavandino improvvisato – mi diranno poi che fino a pochi giorni prima usavano un’enorme bacinella per lavare piatti e vestiti, ma dato il numero progressivo degli sfollati hanno dovuto ingegnarsi – ed un uomo è intento a spostare pesanti bombole di gas fin dentro un magazzino.

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Circa 2 ore e 3 chiamate dopo, imbracciando una busta di pesche appena comprate, siamo diretti all’ospedale militare di Kiev! Un gran via vai di barelle, dottori, soldati di guardia, feriti, bellissime infermiere dagli occhi azzurri e cellulari che squillano. I famigliari che vanno a trovare i loro cari incerottati, feriti o mutilati, senza una gamba o un braccio, o con una parte di corpo mancante. Tanti volontari che portano ogni giorno aiuto come medicinali, cibo, bevande, fino a riempire letteralmente i magazzini dell’ospedale. Provo un gran senso di unione e fratellanza vedendo tutto ciò. Piccoli gesti che trasmettono affetto e contatto umano. Saliamo al quarto piano dell’edificio. Con una mano sulla stampella e l’altra sul corrimano sta scendendo in quel momento un soldato rimasto gravemente ferito. Avrà sì e no 20 anni, come la maggior parte di quelli che vedremo camminare nei dintorni dell’area. Ragazzi di un’età compresa tra i 18 ed i 25 anni. Ha perso completamente una gamba e l’altra è scavata fino all’osso e rammendata con infiniti punti, garze e fasce da cui si intravedono croste e ferite ancora fresche. Un bella botta nello stomaco vederlo scendere lentamente.

 

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In pochi minuti, passeggiando lungo uno dei viali principali, veniamo accerchiati lentamente da un gruppo di bambini curiosi. Ci avvisano che la maggior parte di loro sono ancora sotto shock, spaventati e traumatizzati dall’orribile esperienza vissuta. Alcuni sono orfani o hanno perso un membro della loro famiglia. Necessitano urgentemente di affetto e sostegno psicologico. Cammino tra loro, li guardo, cerco di farli sorridere anche se forse non sono la persona più adatta. Vanno dagli 8 ai 14 anni d’età … qualcuno tra i più grandi gioca a calcio ed è più attivo e pone qualche domanda. Altri sono mogi, con la faccia triste, si limitano a stare seduti abbozzando un timido sorriso. Cautamente qualcuno si fa avanti, si siede tra me e Masha e cominciamo a parlare. Andrei, 10 anni. Ha 6 fratelli dentro al campo che vivono con lui, ed altri 4 (i più piccoli) sono rimasti a Sloviansk con i genitori: “bombardavamo molto! Crollavano case ed esplodevano cannoni e bombe vicino a noi! Vicino alla nostra città hanno distrutto 3 case con un solo colpo! Avevamo molta paura”. Sasha, 10 anni: “Quando siamo partiti da Donetsk ancora non c’erano spari fortunatamente, ma ho tanta paura di perdere la mia casa!”. Mark, 9 anni: “la mia mamma è rimasta in città … la prima cosa che ho chiesto quando i volontari mi hanno fatto uscire dalla cantina è stata di portarmi lontano da dove cadono le bombe … ero molto spaventato”. Scorrono attimi colmi di tristezza e rabbia… mi ci immergo con tutto me stesso, sperando presto di poter far riflettere più persone possibili su una guerra spaventosa (come tutte del resto) ma non considerata ancora tale dai più.

Mi avventuro tra le poche barricate rimaste. Muri di gomme, legna, calcinacci, mattoni, teloni e cartone bruciato. Un luogo simbolo diventato quasi un monumento dimenticato dove farsi fotografare o passare monotone giornate senza sprint. Continuo a camminare tra le tende, legate o infilzate direttamente nell’asfalto con robusti picchetti in metallo. Bandiere ucraine svolazzano in cielo, legate alle estremità di prominenti pennacchi… caschi, scudi e armi usate nella rivolta di febbraio marciscono tra la ruggine, sotto il sole cocente o la pioggia scrosciante. In un avamposto svetta la bandiera della rivoluzione siriana. Da alcune tende fuoriesce musica tecno e qualche reparto è adibito a negozietto souvenir dove puoi trovare magliette pro Maidan o maschere anti gas. Altri agglomerati di tende invece sono diventati alloggi o sala mensa dove senzatetto o barboni possono riposarsi e rifocillarsi. Nella parte nord della piazza stanno cominciando a smantellare e portare via i basamenti delle barricate. “I veri rivoluzionari – mi diranno poi – si trovano ad Est, non a Maidan … le tende che vedi costano molto ma dovrebbero essere inviate al fronte per essere utilizzate dai nostri soldati. Come in ogni situazione, c’è chi se ne approfitta”. Mi allontano lentamente con un suono struggente di tromba come sottofondo.


Profilo dell'autore

Matthias Canapini
Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano (PU). Si occupa di reportage foto giornalistici muovendosi come freelance appoggiandosi a ONG nazionali ed internazionali.
Ha viaggiato nei Balcani, Turchia, Caucaso, Est Europa e Siria, documentando tematiche diverse tra loro come le adozioni a Pristina, le proteste in Bulgaria, le mine antiuomo in Bosnia e Armenia o i ragazzi di strada a Bucarest. Durante gli ultimi viaggi è entrato due volte in Siria per documentare le condizioni di alcuni campi sfollati siti a qualche km dal confine.
Da febbraio copre il ruolo di inviato presso una web tv regionale che si occupa di integrazione e intercultura all’interno di un progetto europeo. Localmente porta avanti progetti legati all’infanzia utilizzando illustrazioni e fotografie per raccontare le storie incontrate qua e là anche ai bambini.
Per info: canapini.matthias@gmail.com o contatto fb

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