di Stefano Rota
Come si sa, i progetti migratori hanno da sempre un carattere temporaneo, mutevole. Si pensa di restare nel luogo prescelto solo per il tempo necessario a realizzare quanto bisogna per sé e per la propria famiglia per poi tornare a casa e ci si trova, per mille ragioni differenti, a trascorrere lì tutta la vita lavorativa, o viceversa. Oppure, si arriva in un paese con l’idea di restavici e si decide, dopo un breve o lungo soggiorno che sia, a cambiare destinazione, trasferendosi in un altro contesto. Anche qui, vale il viceversa di prima, così come le mille ragioni differenti che possono essere alla base di tale scelta.
Se questa tendenza sta nell’ordine delle cose da quando esistono le migrazioni, la crisi economico-finanziaria ha elevato all’ennesima potenza la disponibilità da parte dei migranti a rivedere le proprie strategie, mettendone in moto la capacità di intraprendere un secondo percorso migratorio, anche a 15 o 20 anni di distanza dal primo, con tutte le conseguenze ne derivano.
È un fenomeno, quello delle “seconde migrazioni”, che sta assumendo dimensioni importanti, soprattutto in Italia e in modo particolare per alcune nazionalità (uso questo termine consapevole del fatto che non sia quello corretto, anche se di uso comune). Questo vale, all’interno di queste stesse nazionalità, sia per coloro che sono ancora titolari della propria cittadinanza d’origine, ma anche, o soprattutto, per chi è in possesso della cittadinanza italiana. Perché “seconde migrazioni” e non le definizioni, tanto care agli analisti mainstream, di return migration e circular migration? Proprio per il loro carattere temporaneo e mutevole di cui si diceva prima. Definirle semplicemente come “seconde”, aiuta a descrivere le migrazioni come un processo aperto, indeterminato, imprevedibile e “disordinato”, di cui neppure i diretti interessati sono in grado di prevederne gli esiti ed eventuali successivi passaggi. Figuriamoci i solerti studiosi delle varie agenzie internazionali, centri studi, o i policy maker di amministrazioni pubbliche di vario livello.
In una recente ricerca – condotta da chi scrive con la collaborazione dell’associazione Dhuumcatu e basata sulla raccolta di storie di vita – che ha avuto come ambito d’analisi la comunità bangladese presente a Roma (una delle più propense, a livello nazionale, a intraprendere questo percorso, con oltre 2.000 famiglie coinvolte negli ultimi 3-4 anni), emergono alcune caratteristiche delle seconde migrazioni, che spiegano, quanto meno parzialmente, la natura e la ragioni stesse del fenomeno.
Dando per scontato che la ragione di fondo è, ovviamente, la crisi economico-finanziaria e la conseguente perdita del lavoro, sia dipendente, sia autonomo, si vuole mettere qui in evidenza quale sia la cifra socio-culturale che sottostà a una seconda migrazione. Considero tali caratteristiche come elementi costitutivi della soggettività migrante e della sua identità culturale; a tal fine, è necessario mantenere come riferimento unitario d’analisi l’intero nucleo familiare, più che il singolo individuo.
Come primo dato, va detto che coloro che sono in possesso della cittadinanza italiana tendono a trasferirsi con tutta la famiglia in un altro paese europeo o comunque occidentale; chi ha la carta di soggiorno CE (permesso di lunga durata), al contrario, predilige l’invio dei membri della famiglia al “paese d’origine”, organizzandosi, con una consistente riduzione delle spese e del già basso livello di qualità della vita, per restare ancora nell’attuale zona di residenza, prevedendo o auspicando un miglioramento delle condizioni economiche, che ne consentano il ricongiungimento con gli altri membri del nucleo familiare.
Per quanto concerne la prima tipologia (l’intero nucleo familiare con cittadinanza italiana che si trasferisce in un altro paese europeo, anche se in tempi diversi), va evidenziato il fatto che stiamo parlando di persone che vivono in Italia da circa quindici anni o oltre, con figli adolescenti nati e cresciuti qui, con esperienze lavorative consolidate alle spalle, con ruoli di primo piano anche all’interno della comunità. In moltissimi casi, questi nuclei familiari si trasferiscono in Inghilterra (Londra, soprattutto), dove, nonostante la presenza di un’estesa comunità di riferimento, il processo di inclusione sociale deve necessariamente ricominciare, se non da zero, comunque da un livello basso. Per usare gli stessi termini già utilizzati su queste pagine, ritornano al di là di alcuni “confini” che, sia pur con modalità diverse, venivano dati come oltrepassati.
Per la seconda tipologia, che prevede l’invio dei familiari al paese d’origine e il presidio dell’”avamposto europeo” da parte del capofamiglia, stiamo sempre parlando di persone che vivono in Italia da molti o moltissimi anni (anche se mediamente inferiori al caso precedente), anche qui, con figli italiani, sostanzialmente anche se non formalmente, con diversi anni di lavoro “regolare” e consolidati rapporti sociali all’interno della comunità e dei quartieri di residenza.
Cosa accomuna queste due tipologie di spostamenti, che porta a definirli entrambi come “seconde migrazioni”? A mio modo di vedere, la composizione di valori culturali, attitudini, predisposizioni che connotano le azioni del nucleo familiare come un “agire migrante”, quindi, come si è detto prima, aperto, imprevedibile e disordinato (nel senso di non assoggettabile, “sublime”). Provo a declinare questi termini in forme di azione e motivazioni che, forse, meglio li rappresentano.
Lasciare il luogo dove si è vissuto per buona parte della propria vita, dove sono cresciuti e hanno studiato i figli è reso possibile da una percezione di sé (familiare) come, in ultima istanza, altro dal contesto generale in cui il soggetto si muove. La consapevolezza, percepita o reale che sia, non ha importanza, che il destino dei figli non sarà diverso dal proprio, che, quindi, quella che viene percepita come una condizione di subalternità sia destinata a durare anche nelle nuove generazioni, porta a prendere decisioni anche cariche di una certa dose di incomprensibilità o di irrazionalità. E’ il caso, ad esempio, dello spostamento in un paese, la Polonia, dove “mi hanno detto che si guadagnano 800 euro al mese”, senza nessun altro riferimento al tipo e alle condizioni di lavoro.
L’identità culturale della soggettività migrante si manifesta qui con forza: gli 800 euro sono una paga giusta, non in relazione a condizioni lavorative non specificate, né rispetto al costo della vita locale. Assumono un valore assoluto. Sono quanto basta per giustificare uno spostamento, perché si considerano sufficienti per garantire l’impegno principale assunto con la famiglia d’origine, i conoscenti, l’ambito di riferimento nel (primo) contesto di provenienza: l’invio di rimesse, che connoti agli occhi di tutti il progetto migratorio come un’azione di successo. Questi valori, basati più sul concetto di giusto che su quello di vero, i “valori forti”, come li chiamerebbe Boudon, pur non assumendo un carattere di immutabilità, ma anzi, modificandosi nella tensione che si crea e si rinnova sempre nelle “forme di lotta” culturali – secondo la definizione di Hall – interne al nucleo familiare, definiscono le modalità di azione del soggetto migrante. L’irrazionalità di cui si è detto prima è tale nella percezione dell’osservatore, ma assume un senso di “orientamento al valore” nel soggetto agente.
Tasmia, una ragazza di 19 anni italo-bangladese, e sua madre Bithy sono arrivate a Londra dall’Italia circa un anno fa. Il padre di Tasmia è ancora in Italia, in attesa di poterle raggiungere. Il loro racconto mette in evidenza due aspetti importanti. In primo luogo, la loro esperienza è descritta esattamente nella stessa “lingua” in cui veniva narrata quella del padre, oltre vent’anni prima, al momento del trasferimento dal Bangladesh all’Italia. La descrizione del luogo, delle opportunità presenti, ma anche il senso di incertezza, nel breve e nel medio-lungo periodo, le strategie quotidiane per districarsi all’interno di un ambiente poco conosciuto, la separazione da un membro della famiglia, raccontano di un nucleo familiare che vive a tutti gli effetti una seconda migrazione. Il secondo aspetto si può riassumere in una domanda: Tasmia e Bithy appartengono alla diaspora bangladese o a quella italiana? Se si considerano le propensioni, modalità di agire e ricerca di contatti da parte della figlia (“sto cercando di contattare altri ragazzi italiani che vivono qui vicino”, “non voglio lavorare in un negozio di bangladesi o indiani”), si sarebbe propensi a scegliere la seconda risposta senza esitazioni.
Ma, forse, sarebbe più corretto porsi un’altra domanda: le seconde migrazioni sono da leggere e assumono significato all’interno di cambiamenti della dimensione diasporica di una comunità (qualunque essa sia) o di quella che è stata definita da Mellino “cittadinanza postcoloniale”, che vive lo spazio europeo come “ex metropoli colonizzatrice”, al cui interno irrompe la “periferia”? Anche in questo caso, la scelta dovrebbe ricadere, a mio modo di vedere, sulla seconda ipotesi, dal punto di vista epistemologico, arricchita, però, dalla lettura sociologica del fenomeno, che evidenzia una sostanziale modifica delle dimensioni, contenuti della diaspora, conferendole un carattere “meticcio”.
La separazione del breadwinner dal resto del nucleo familiare, con il (temporaneo?) rientro di quest’ultimo al paese d’origine – la seconda tipologia descritta all’inizio – contribuisce ulteriormente ad arricchire il quadro che si sta cercando di descrivere. Questo spostamento assume in toto il carattere di un movimento migratorio, per almeno due ragioni. La prima risiede nelle sue implicazioni economico-finanziarie. Associato a questo rientro, si trova spesso il fenomeno delle “rimesse inverse” come le chiama giustamente Ambrosini: il flusso di denaro comincia a dispiegarsi dal paese d’origine al membro familiare rimasto nel paese europeo. La funzione di tale flusso è specularmente identica a quella tradizionale: garantire il miglioramento di alcune condizioni, per poter ricongiungere l’intero nucleo.
La seconda, invece, ha a che vedere con le difficoltà che ogni bambino o adolescente migrante inizialmente vive, nell’adattarsi a un contesto profondamente differente. I figli della prima migrazione spesso utilizzano la lingua materna solo nella sua versione parlata e in ambito familiare; inoltre, hanno acquisito le modalità relazionali degli ambiti extrafamiliari di socializzazione in cui sono cresciuti. Questa situazione crea ai “secondo migranti” più giovani lo stesso tipo di problematiche vissute dai loro coetanei che hanno percorso la stessa rotta, ma in direzione inversa. L’inserimento in un ambiente scolastico in cui viene utilizzato un alfabeto diverso, con metodi d’insegnamento e modelli di relazione altrettanto differenti provoca non pochi conflitti culturali, sia all’interno del nucleo familiare, sia intrapersonali. Se questo è vero per l’ambiente scolastico, la stessa situazione si crea in altri contesti che presuppongono l’utilizzo di spazi pubblici, in modo particolare per le ragazze in età adolescenziale, come viene testimoniato in alcune interviste raccolte.
Dove ci conduce tutto questo? A mio avviso, a focalizzare l’attenzione sugli aspetti di identità culturale dei migranti nella costituzione di una soggettività che appare sempre più centrale nel mondo globalizzato. Questo significa ricondurre quegli aspetti alla sfera strutturale della dimensione societaria e delle relazioni che la regolano, più che a quella sovrastrutturale. Le conseguenze sono molteplici: provo a individuarne quelle che mi sembrano più significative. Si ridefinisce l’ambito d’azione del soggetto migrante, sulla base del suo carattere transnazionale. Si delinea lo spazio europeo, ma non solo, come un’area la cui suddivisione in stati-nazione perde di significato, per acquisirne, invece, attraverso la moltiplicazione di confini, e quindi di aree, (come scrivono Mezzadra e Neilson) che intersecano gli stati stessi e al cui interno si riproducono modelli d’azione e culturali, indifferenti alle coordinate latitudinali e longitudinali. Si riscrivono le storie dei nostri quartieri, attraverso le biografie dei soggetti che gli danno vita e forma, con le loro strategie e portato culturale. Si ridefiniscono concetti che siamo abituati a dare per scontati, quali diaspora, multiculturalismo, integrazione, inclusione.
Questi sono solo alcuni degli aspetti che vale la pena evidenziare, analizzando un fenomeno così complesso e articolato. Altrettanti certamente ne sorgono nella mente di chi si confronta quotidianamente con questi temi e, ancor più, di chi in queste realtà vede una parte del proprio vissuto. Tra questi, certamente, Phaim Bhuiyan, che sintetizza magistralmente in una “scheggia” di minuto tutto, o moltissimo, di quanto si può dire.
P. Bhuiyan, “Vivere o non vivere in Italia?”
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