“Vedevo tutto bianco”, conversazione con Ahmad Ejaz

di Stefano Rota – Associazione Transglobal

Ejaz è un cittadino italiano di origine pakistana. Vive in Italia da 25 anni, sposato con una donna italiana, dalla quale ha avuto due figli. Giornalista, mediatore culturale, ha fondato l’associazione “Nuove Diversità” e il giornale “Azad”, di cui è direttore. In questa conversazione, racconta, a tratti con toni anche molto ironici, le sue impressioni, la sua lettura, o difficoltà di lettura, del mondo in cui era arrivato, quando la presenza di migranti in Italia era appena agli inizi, nella seconda metà del 1989.

Il 1990 ha segnato uno dei “turning point” nella storia dei movimenti migratori verso l’Italia: la Legge Martelli consentiva, infatti, la regolarizzazione della presenza, unicamente sulla base di una certificazione attestante la presenza in Italia prima del 31 dicembre 1989.

Su questo punto, sulla produzione delle certificazioni, si è costruito un rapporto importante, fondamentale per la storia dei movimenti migratori in tutti gli anni Novanta e oltre: quello tra i migranti e il movimento degli studenti della Pantera. Un rapporto che si è ulteriormente consolidato con l’occupazione della Pantanella, sempre nel 1990, “il primo centro di accoglienza creato dalla società civile romana”, come lo definisce lo stesso Ejaz. Ma è stato anche un laboratorio politico e sociale importante, dove per la prima volta veniva alla luce il carattere centrale della soggettività migrante rispetto alla forma globale che gli eventi internazionali di quell’anno davano a intendere avrebbe preso il modello produttivo dominante.

Ejaz assiste a tutto questo da una posizione, per certi aspetti, privilegiata: arriva con un visto da giornalista (“era di dieci giorni e sono qui da 25 anni”), con un background culturale elevato, con alle spalle una storia di studente di sinistra, “quando essere di sinistra era illegale”, oppositore al regime militare che si era instaurato in Pakistan.

Questo non impedisce che saltino con forza ai suoi occhi tutte quelle caratteristiche del nostro vivere quotidiano a lui completamente estranee. Viene così alla superficie una diversità di fondo su aspetti a cui nessuno verrebbe da pensare, tanto sono parte dell’universo culturale di riferimento di ognuno di noi, che li si veda da una parte, o dall’altra.


 

Il passo di donna

Rota. Prova a raccontarmi le tue impressioni, quelle che ti si sono maggiormente impresse nella memoria, dei tuoi primi mesi in Italia.

Ejaz. Stavo sempre a Termini e vedevo questa folla di persone, romani, turisti, le ragazze vestite in questo modo, con le minigonne, vedere le gambe delle donne, la faccia, era per me era tutto strano. Su gli autobus erano tutti bianchi. Io vedevo tutto bianco. Vedevo questa popolazione che correva, per andare a lavorare e per tornare, con un modo di camminare che era diverso. Non vedevo quella gerarchia a cui ero abituato in Pakistan; era tutto nuovo, mischiato. Le donne che camminavano come gli uomini, non come le donne che avevo visto camminare con il passo da donna, che fumavano.

R. Com’è il passo da donna? 

E. Le donne camminano in Pakistan come donne, gli uomini hanno una loro camminata, le donne anche e sono due camminate diverse. Qui no, tutti camminano allo stesso modo, perché devono correre. Anche le parolacce qui sono uguali, mentre da noi esistono le parolacce degli uomini e quelle delle donne. Tutto il linguaggio in generale è separato in Pakistan, qui è mischiato. La cosa che mi ha colpito è che Valentina e i suoi amici si baciavano sulla guancia: in Pakistan, se baci una donna su una guancia, è un atto osceno e la galera è da sei mesi a due anni. Qui, quando ti parla una donna, ti guarda; in Pakistan, no, non ti guarda quando ti parla, così come fanno anche i bambini con i grandi. Ti insegnano a scuola che non devi guardare il tuo interlocutore. Per gli occidentali è obbligatorio guardare l’altro negli occhi. Quando ho cominciato a lavorare come mediatore, i bambini pakistani si lamentavano che la maestra gli diceva: guardami quando ti parlo, mentre noi diciamo al bambino: non mi guardare quando io parlo. Anche la gestualità, la distanza che si tiene quando si parla è tutta diversa. 

Cibo per animali e abbronzatura

R. Immagino che ci fossero aspetti che delle vita che ti ruotava intorno che trovavi buffi, ridicoli nella loro incomprensibilità. A me, ad esempio, è successo di notarne quando arrivai in Mozambico. Cose che dopo un po’ non ci fai più caso.

E. Certo che ce ne sono! Quando ho cominciato a lavorare in un magazzino a Bologna, la cosa più strana per me era vedere una corsia intera di cibo per gli animali. Venivo da un paese dove il cibo era importantissimo e tutto quel cibo era solo per cani e gatti. E io dovevo lavorare lì! Quando lo raccontavo ai miei amici, non ci credevano. 

Un giorno ho conosciuto una persona che ha speso quattro milioni di lire per il funerale del gatto. Quando ne ho parlato sul mio giornale, l’ho spiegato dicendo che qui non fanno figli e che quindi nasce un rapporto con l’animale molto diverso, lo portano dal dottore, sono preoccupati per la loro salute, lo lavano con lo shampoo, gli danno cibi prelibati. Per me tutto questo era incomprensibile.

L’altra cosa che mi ha colpito molto degli italiani è che quando è arrivato luglio, nei fine settimana la città era vuota. Ma dove sono andati tutti? Peggio ad agosto! Allora sono andato con un mio amico con il quale vendevamo braccialetti, collane indiane, a Ostia. Stavano tutti lì! Ho chiesto al mio amico: cosa fanno qui? Mi ha risposto: stanno seduti davanti al sole, tutto il giorno, guardano il sole. Io non ci credevo; pensavo: staranno qui un’ora e poi se ne vanno. Invece no: due, tre, quattro ore, andavano a pranzare e tornavano. Non riuscivo a capire come potesse essere possibile. Noi, se possiamo, scappiamo dal sole, odiamo stare al sole. Per noi, una bella giornata è quando piove. Ci sono molte canzoni legate alla pioggia dei monsoni, la pioggia è un dono di dio. Gli italiani, all’inizio, quando mi dicevano: che bella giornata! Io guardavo fuori e c’era il sole. Ancora adesso un mio amico mi chiama da Lahore e mi dice: oggi è una bella giornata, sta piovendo. I poeti parlano della pioggerella nelle loro poesie romantiche, nei film di Bolliwood, fanno la pioggia finta nelle scene più toccanti.

“Io” e “gruppo”

R. Col passare del tempo, conoscendo le persone, hai notato altri aspetti della vita in Italia che ti risultavano in qualche modo estranei?

E. Sì, c’erano cose che vedevo e rifiutavo, come ad esempio il concetto di anziano che esiste qui. L’abbandono degli anziani, all’interno di un sistema familiare, fatto comunque di poche persone, tre quattro persone al massimo. Da noi, ci sono sempre nipoti, vicini di casa, le case stesse sono fatte in modo diverso, sono sempre aperte agli ospiti. La nostra identità culturale è basata sul gruppo, a differenza di un’identità culturale basata sull’individuo in Europa, che rende difficile la gestione dei rapporti. Da dove vengo, “io” era poco rilevante. Qui, “io” è “me”. Io, che ho una data di nascita. Per noi la data di nascita non è obbligatoria. 

R. Cosa c’è sul documento d’identità?

E. Abbiamo il nome e il nome del padre; noi non abbiamo il cognome. Lo inventiamo per prendere il permesso di soggiorno. Dal nome del padre e dal nome nostro, peschiamo un nome e lo mettiamo come cognome. Anch’io ho messo Ahmad come nome ed Ejaz come cognome, perché non potevo dare il nome di mio padre, è troppo lungo. Il nostro cognome, di indiani, bangladesi, pakistani, è un’invenzione, che abbiamo tirato fuori da quello che c’è scritto sul passaporto. Uguale per la data di nascita: per noi non è importante. All’inizio avevamo 00/00 e l’anno sul passaporto, ma il computer italiano non lo accettava, quindi le ambasciate dicevano di mettere 1° gennaio, per non far perdere tempo all’impiegato. Adesso ci sono decine di migliaia di persone nate il 1° gennaio. La data di nascita non è importante, perché non è importante l’individuo. Pensa a un Pakistano, bangladese che lavora 10 ore al giorno, non vive per sé: alla fine del mese, manda tutti i soldi a casa della famiglia. Questi soldi, 500-600 euro, la madre li riceve e li divide tra altre dieci persone, che sono figli, cugini, le donne di casa. Noi siamo contenti così.

Un’altra responsabilità nostra è che dobbiamo fare sposare le sorelle, le figlie. Questo comporta una spesa di 10-20.000 euro. Lo stesso vale per mandare un figlio in occidente: è un percorso che, passando dall’Iran, la Turchia, può durare da sei mesi a due anni, con un costo di 10-15.000 euro. Quindi la famiglia deve vendere il negozio, la casa, si riempie di debiti, ma è una responsabilità collettiva.

Tempi di vita e tè freddo

R. Una cosa che mi aveva colpito molto in Mozambico è una totale differenza del concetto di tempo. Le persone aspettavano un pullman anche un giorno intero, andavano in un ufficio e dormivano, perché sapevano che la loro attesa poteva essere molto lunga. Hai notato anche tu questa differenza?

E. Parlare con te di queste cose è facile, perché sai esattamente cosa significano. Quello che dici è anche il mio vissuto, ma quello che mi ha colpito qui è il concetto di tempo libero. In occidente è molto sentito: le ore di lavoro, le attività extra-lavorative, le ferie. Per noi è tutto diverso: i negozi stanno aperti girono e notte. Anche qui, un commerciante, se ha avuto il permesso per stare aperto dalle otto di mattina a mezzanotte, sta sempre aperto in quell’orario. Quando sono arrivato, vedevo che tutti i commercianti chiudevano a pranzo e riaprivano alle quattro di pomeriggio. Un concetto di tempo libero che non capivo.

Noi abbiamo un grande rapporto con il tè, da noi non esiste il caffè. Il chai col latte è molto importante quando arrivano gli ospiti. Deve essere bollente, perché chiacchieri e bevi, piano piano. E’ importante che sia bollente perché devi avere il tempo di bere il tè e chiacchierare con gli altri. Il vostro caffè al bar è ordinato, preparato e bevuto in un minuto e mezzo, addirittura in piedi, per fare prima. Per noi, invece, ha un significato completamente differente. Questo è legato al nostro concetto di tempo: un film dura tre ore, un matrimonio sette giorni, l’autobus parte solo quando è pieno. Se poi è Ramadan, all’ora della preghiera, non parte perché prima c’è la preghiera. 

Un giorno, era estate, un mio amico mi ha detto: vuoi un tè? Io gli detto sì. Mi porta questo bicchiere, che io ho bevuto, e mi sono detto: adesso, dopo questa bevanda fredda, arriverà il tè. Il mio amico mi ha detto: quello è il tè, il tè freddo. Io sono rimasto un po’ incredulo, perché per me il tè è solo caldo, bollente.

Direi che la differenza principale tra i nostri concetti di tempo è tra un’idea del tempo verticale, il vostro, proiettato nel futuro, e un’idea circolare, la nostra, che dà importanza al presente.

Traduzione e identità

R. Arriviamo al presente. Parlami del giornale Azad e della sua funzione

E. Azad è un giornale online, anche se per molti anni è stato stampato, e raggiunge migliaia di pakistani in Italia. Parla molto di integrazione, integrazione reciproca. E’ anche letto in Pakistan da chi è interessato all’emigrazione in Italia. Parla di problemi legati all’immigrazione: permesso di soggiorno, cittadinanza, patente italiana. Contiene le guide, tradotte in Urdu, su come inserire un bambino in una scuola, cos’è il numero blu, il numero verde, quali sono i diritti della donna in Italia (molti uomini mi dicono di non scrivere sui diritti delle donne, perché se lo leggono le loro mogli si creano problemi).

R. Vorrei affrontare un tema più specifico: la traduzione. Cosa significa tradurre una procedura, delle norme dall’italiano all’urdu? Quando traduci, cosa traduci e come traduci?

E. Guarda, se io traduco letteralmente, non ha nessun significato. Se io voglio tradurre matrimonio, che in urdu è shadi, non è sufficiente. Per noi shadi è il matrimonio combinato e significa solo questo. Lo stesso vale per la parola libertà. Nella nostra cultura, molte volte il termine libertà è interpretato come volgarità. La libertà della donna, spesso assume il significato di volgarità del comportamento femminile. 

Quindi, tradurre non è facile. Per tradurre una guida medica di ginecologia, è molto difficile. Da noi non si può parlare della sessualità. Come ti dicevo prima, esistono linguaggi separati tra uomini e donne. Mantenendo il rispetto per la religione e per la cultura pakistana, bisogna tradurre in modo che un lettore legga quello che traduco. Io ho di fronte tre linguaggi in urdu: quello degli uomini, quello delle donne e quello della famiglia. Io devo usare il linguaggio che tenga conto di queste differenze, che non offenda nessuno.

Il giornale Azad usa un linguaggio mischiato, è un urdu italianizzato. Il lettore è una persona che ha una doppia cultura: quella d’origine e quella italiana. 

Il migrante è sempre una persona in viaggio. Nei racconti dei migranti sono sempre presenti i tre elementi centrali: il paese d’origine, il viaggio e il paese di destinazione. Il tema del viaggio c’è sempre nei discorsi dei cittadini di origine diversa.

Questa sensazione di doppia appartenenza si manifesta sempre, anche nei sogni. Io spesso ho sognato di vedere dalla finestra le signore che vedo nel palazzo di fronte, ma vedere anche in strada scorrere un matrimonio pakistano, con i tamburi, i canti.

Il problema della doppia identità si trasforma, col passare degli anni, in una doppia estraneità: cominci a diventare straniero anche al tuo paese e continui a esserlo dove vivi.

L’essere straniero assume il valore di una terza identità. Possiamo dire che il giornale ha anche una funzione di dare un senso a questa terza identità: l’accettare di non poter picchiare la moglie o il proprio figlio, pur dentro al rispetto delle tradizioni pakistane generali, significa dare corpo a questa terza identità.

Dopo il 7 gennaio [assalto alla sede di Charlie Hebdo, ndr] hanno espulso due ragazzi pakistani, tutti e due di seconda generazione. Erano attratti da quest’idea dello stato islamico, perché non si sentivano appartenenti a niente e a nessuno, come accade a molte seconde generazioni.


Termina così questa conversazione con Ejaz. Con un’affermazione tanto forte quanto riconoscibile, percepibile nelle rivolte delle metropoli europee, da Parigi a Londra, ma anche nella scelta da parte di molti giovani di sostenere o di aderire allo Stato Islamico. La terza identità di cui parla è quella che si crea a cavallo tra le due estraneità, ma è anche la stessa che, tra due “identità”, produce una cittadinanza che Isin ha definito “enacting citizenship”. E’ un tipo di cittadinanza che si dispiega in molti contesti, dal giornale Azad, alla scuola “Pisacane” di Tor Pignattara a Roma, dove, secondo le parole di Cecilia Bartoli dell’Associazione Asinitas, prende corpo una vera “cittadinanza scolastica”. Credo, senza voler aggiungere altro per non voler interpretare o “tradurre” quanto è già stato ben espresso, che questi punti meritino un’approfondita riflessione. Ognuno faccia la sua.


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