di Alessandro Pagano Dritto (@paganodritto)
Il 17 aprile 2015 Andrea Segre, veneto, viaggiatore, documentarista, è a Schio e poi a Marano Vicentino, provincia di Vicenza, a presentare il suo ultimo libro: Fuori rotta. Diari di viaggio (Marsilio Editori, Venezia, 2015, pp. 212) uscirà nelle librerie il 23 del mese. L’intervista si svolge in un negozio che per metà vende abbigliamento da montagna e per l’altra metà vende libri, in buona parte anche quelli di montagna.
Il titolo del suo libro è Fuori rotta. Come mai questo titolo per un libro che racconta di viaggi?
Il titolo significa molto semplicemente che le esperienze più formative nella vita sono quelle in cui si rinuncia alla rotta sicura e normale. E poi è anche un consiglio a chi, più giovane di me, è cresciuto dentro un mondo in cui è normale la divisione tra una parte e l’altra del mondo, tra chi ha il diritto e non ha il diritto di viaggiare. Io ho vissuto la trasformazione della nostra terra in terra di immigrazione, ho iniziato a conoscere i migranti mentre avveniva tutto ciò, mentre oggi questo è tutto normale: il mondo va così, c’è qualcuno che può e qualcuno che non può viaggiare. Ogni volta che mi ritrovo a parlare con ragazzi più giovani e chiedo loro di ragionare su cosa significhi avere o non avere il passaporto – o meglio, cosa significhi avere il passaporto giusto o non averlo – molti mi dicono che non ci avevano mai pensato: questo perché per noi tutto questo è diventato normale. Andare fuori rotta allora vuol dire anche non accettare questo tipo di divisione rispetto ad uno dei diritti fondamentali dell’essere umano: quello del movimento. Tutto quanto sta accadendo nel mondo è sicuramente molto complesso, ma iniziare ad osservare il mondo pensando a cosa succederebbe di me se io fossi nell’altra posizione è un buon modo per non abituarsi all’ordine normale, alla rotta normale. Quindi fuori rotta è un consiglio di movimento, ma anche un consiglio su come guardare il mondo.
Cos’è per lei il viaggio?
L’altro giorno abbiamo presentato il libro a Roma con il critico letterario Goffredo Fofi. Che, tagliente e pungente come sa essere, ha cominciato dicendo: «Io non mi fido dei viaggiatori e della letteratura di viaggio». Però ha detto che questo libro gli è piaciuto perchè è un diario di formazione di un ragazzo che scopre pezzi di vita e di mondo. In realtà questo libro non l’ho scritto io: l’ha scritto l’Andrea passato. Io l’ho scritto inconsapevolmente, tra il 1999 e il 2009, senza sapere che fosse un libro. Io credo che il viaggio di per sé rischi di diventare qualcosa di moda, un po’ esotico, di toccare troppo il turismo, che quello stesso termine che io amo rischi allora di andare in questa direzione. Fuori rotta è un altro tipo di viaggio, è un viaggio che non si fa per distrarsi, ma per conoscersi; non per divertirsi ma per mettersi in situazioni scomode; non per riposarsi, ma per faticare; non per conoscere cose belle della vita che prima non si aveva mai visto, ma per conoscere un pezzo di noi attraverso lo sguardo di un altro. Per questo, come dice Fofi, Fuori rotta è quasi più un romanzo di formazione che un libro di viaggio.
A proposito di formazione. Lei è un regista: com’è avvenuta questa formazione?
Io sono diventato regista senza accorgermene. Sul serio, nel senso che non ho studiato regia, non ho detto «io voglio fare il regista». Ho iniziato prima a viaggiare per ricerca scientifica legata all’università, ma anche semplicemente per passione umana, e poi, dopo, quando ho iniziato ad incontrare le storie che il viaggio mi ha permesso di incontrare, ho detto «adesso voglio raccontarle ad altri»: avevo uno zio che aveva delle telecamere e gli ho chiesto di prestarmele e ho iniziato così. Poi, piano piano, ho capito quanto era complessa la cosa e ho iniziato a studiare, a guardare altri film; ho avuto la fortuna che questa mia passione si è sviluppata in un periodo di forte rinascita del documentario in Italia e così, incontrando altri documentaristi e guardandone i film, piano piano sono diventato regista. Ho cercato di farlo in modo più complesso lavorando con gli attori, cercando di capire come funzionava la scrittura: e allora ho iniziato a formarmi lavorando. Questo libro è anche il diario di formazione di me regista, di come lo sono diventato man mano. E infatti nel retro di copertina ho voluto inserire questa frase che dico a chi mi chiede se, per diventare regista, ho fatto il Centro Sperimentale di Roma: io dico sempre di no e rispondo che «ho fatto il Centro Giovanile di Valona». Una risposta provocatoria, evidentemente, ma che in parte è anche vera; nel senso che questi viaggi, questi luoghi come Valona, sono stati la mia formazione umana e anche registica.
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Lei ha introdotto questo progetto parlando di «quei paesi appena fuori dall’area Schengen». Però tra questi «paesi appena fuori dall’area Schengen», uno che andasse a guardare i posti dove lei è stato, troverebbe anche Lampedusa o altri paesi italiani. Come deve interpretare, il pubblico, questa scelta?
La maggior parte dei viaggi sono ai confini dell’area Schengen. Poi questi confini permangono anche dentro all’area stessa. Penso ad esempio al diario del Kawkab, un mercantile abbandonato dove io ho incontrato otto marinai che vi erano stati lasciati e che poi ho raccontato nel film Marghera Canale Nord: loro erano intrappolati dentro l’area Schengen senza però poterne partecipare fino in fondo, perché il loro permesso di stare in Italia era legato alla permanenza all’interno di quella nave abbandonata che però batteva bandiera egiziana. Oppure penso ai presidianti di San Pietro, un piccolo paesino del Veneto, che pur avendo tutto il diritto di passaporto di stare all’interno dell’area Schengen, ne fanno parte in maniera controversa: nel senso che loro non vorrebbero che quest’area andasse in una certa direzione e quindi ci stanno sì dentro, ma ci stanno in qualche modo anche fuori. E poi ci sono Lampedusa e altri luoghi di confine. Del resto questo libro non è legato solo alle migrazioni: le storie sono anche altre, ci sono anche altri aspetti che sono comunque terreni di incontro con l’altro e che mi hanno fatto crescere molto.
Lei parla della migrazione come uno dei possibili modi di conoscere l’altro, mentre spesso l’impressione è che dai media, dall’informazione, provenga un’interpretazione diversa.
Noi abbiamo costruito l’identità dello spazio Schengen e della nostra vita adesso sulla base di questa forte distinzione: chi dentro e chi fuori.
E in questo modo abbiamo creato una forte pressione: perché chi sta dentro rappresenta una delle parti più vecchie e più ricche del mondo, mentre fuori ci sono i giovani e i poveri. Alla fine diventa una legge quasi fisica: quando si crea uno spazio di acqua calma e bassa dentro, uno di acqua alta e mossa fuori, quest’ultima spinge per osmosi. Purtroppo, quando io ho iniziato a raccontare questa storia, eravamo solo all’inizio e probabilmente non finiremo mai di raccontarla per i prossimi trenta, quaranta, cinquant’anni, fino a che gli equilibri saranno questi. Diventa totalmente impensabile trovare un’altra soluzione, insomma. E allora la domanda di tutti è: cosa possiamo fare? Il mio compito non è certo quello di dare una soluzione, anche se nel mio blog ho scritto alcuni interventi più pragmatici o politici; però credo che il primo punto di partenza per provare a inventare un’altra strada o a vivere tutto questo in un modo diverso sia quello di non fidarci della definizione che abbiamo dato a questa storia. La definizione di immigrazione illegale o immigrazione clandestina è diventata normale e descrive questa storia dall’unico nostro punto di vista: noi possiamo stare qua e gli altri non possono. Come spiegarlo a un ragazzo di 25 anni che sta fermo a Niamey o ad Agadez e che vede in televisione come si vive qua? Gli si può dire che è difficile, che rischia di morire, ma c’è un’altissima possibilità che lui parta lo stesso.
Intervenendo sul suo blog, lei ha posto in parallelo, sempre a proposito della migrazione, la retorica dell’invasione e quella del pietismo: «Poveretti e invasori – ha scritto – sono due categorie della conoscenza che dialogano alla perfezione e su cui si possono costruire imperi».
Sì, ne parlo anche nel mio libro. Quando ho iniziato questi viaggi, l’ho fatto collaborando con una ONG oggi non più esistente, ma della quale stimo molto la storia, il Consorzio Italiano di Solidarietà (CIS), e quindi avevo, per quanto magari più diverso e bizzarro rispetto ad altri, la posizione del cooperante. Io questa posizione di chi si suppone sia migliore e detentore di soluzioni per qualcuno che non sta bene l’ho vissuta molto male: è uno squilibrio che fa parte dello stesso squilibrio che genera l’«invasione». Retoricamente, questo squilibrio spesso si trasferisce nella retorica della pietà: «poveretti come stanno male, li dobbiamo aiutare». Questa retorica, in realtà, suggerisce spesso una giustificazione per mantenere una distanza, per non conoscere e non indossare certi panni, per non correre il rischio di rinunciare a una certa rotta: mantengo la mia rotta e ogni tanto, quando vedo che c’è qualcuno che sta male, allora lo aiuto. Questo è il modo più progressista con cui abbiamo affrontato la questione, ma in realtà è una mancanza di assunzione della responsabilità, di assunzione di prese di rischio, il tentativo di mantenere una protezione condendola con un po’ di morale pietistica. Questo, naturalmente, non voglio che infici quella parte della pietà, della carità, che si ritrova in molte di quelle azioni di accoglienza, incontro, confronto, che in Italia e in Europa sono state fatte in questi anni; azioni che hanno permesso al nostro paese di non avere una deriva di odio e xenofobia che sarebbero stati tutti pronti ad usare e che comunque viene a volte usata negli ambienti della politica; ma quegli stessi che compiono poi queste azioni finiscono col rendersi conto, facendole, del limite della posizione della pietà.
Quindi un approccio diverso quale potrebbe essere?
A questa pietà dovrebbero unirsi un’analisi e un confronto veri, senza fermarsi all’umanitarismo quasi da marketing, da sms solidale cui però non segue altro. Si dovrebbe insomma, in più, percorrere quella distanza che determina questi movimenti e percorrerla vuol dire saper rinunciare a pezzi dei propri privilegi, capire cosa significa andare a vivere in un posto o in un altro, rimanere nei luoghi, conoscere le storie, parlare con le persone, compiere azioni che mettono in discussione la tua rotta e non semplicemente che vedono la rotta degli altri come pericolosa.
Parlando prima di territori che, pur essendo dentro l’area Schengen, hanno con quest’area un rapporto, diciamo così, conflittuale o non lineare, lei citava un paesino del Veneto e un suo stesso lavoro che si chiama Marghera Canale Nord. Lei stesso, poi, è veneto. Che ruolo ha, o ha svolto, questa sua regione nella sua formazione, nella sua produzione?
Il Veneto è il luogo dove sono cresciuto, che mi ha insegnato tanto delle necessità di andare fuori rotta. Credo di aver avuto la fortuna di vivere questo luogo in una fase molto interessante, una fase in cui si credeva che questo territorio fosse lanciato verso la sicurezza di un futuro fulgido. Ma mentre credeva questo, il Veneto ha commesso tre grandi errori, che a starci dentro si capivano anche quando in molti li negavano. Il primo errore è stato non rispettare il proprio territorio. Il secondo, molto legato al primo, non rispettare la propria memoria e affidarla alla formazione di un’identità gestita per interessi politici ma non davvero basata sulla conoscenza del proprio percorso; questo perché se uno conosce davvero la propria identità non ha alcuna paura a confrontarla con gli altri, mentre, se la costruisci per chiuderti, non la stai davvero conoscendo. Terzo, non capire l’importanza del rapporto e del dialogo con l’altro, con gli stranieri che, lavorando, hanno costruito insieme ai veneti il tessuto economico. Questi errori, fatti tra gli anni ’90 e 2000, sono i nodi che oggi arrivano al pettine e che oggi chiamiamo crisi: la crisi economica diventa più grave nel momento in cui si è in crisi col proprio territorio, con se stessi e con il resto del mondo. Probabilmente non era nemmeno facile affrontare la questione in un territorio sociale che ha conosciuto un’evoluzione tanto repentina che all’interno della stessa famiglia si trova il nonno ex migrante, il padre che è diventato ricco e il figlio che vive nell’agio e nella tranquillità. Naturalmente nel panaroma generale esistono sempre delle eccezioni, ma in ogni caso questi tre errori oggi, come ho detto, vengono al pettine.
Quali eccezioni, per esempio?
Per esempio, Giavera del Montello, vicino Treviso: un paesino dove un prete, un boy scout e un assessore comunale dal 1994 fanno un festival di intercultura e di conoscenza con le comunità straniere e hanno creato così un paese diverso da quelli intorno. Penso anche al presidio di San Pietro di cui parlo nel film La Malombra: un gruppo composto per la maggior parte di vecchi contadini si è opposto alla costruzione di un’altra zona industriale, pur essendo loro stessi grati a quello sviluppo industriale che li ha portati fuori dalla povertà. Rispetto alla memoria ho in mente Pino Guzzonato, scultore del Tretto che lavorando con la carta e con i vecchi oggetti permette alla memoria di esistere: il suo rapporto con quel territorio e con la sua memoria sono diventati arte.
Nel suo blog si legge una definizione del racconto come resistenza. Cosa vuol dire resistere?
Resistenza è una parola che secondo me ha un lato positivo e uno negativo: una sorta di arma a doppio taglio. Da una parte aiuta a capire quanto sia importante costruirsi degli strumenti per non essere soltanto consumatori di ciò che ti arriva e per evitare che le cose più facili da consumare facciano di te un oggetto a disposizione di chi poi ha il potere di veicolare questo consumo: questa per me è resistenza culturale, che credo sia sia individuale che collettiva e, devo dire, anche diffusa in Italia. La paura che invece mi fa il termine resistenza è che sembra voler dire che si sia in ritardo rispetto a qualcosa: nella parola resistere c’è un che del significato di conservare e allora se resistere vuol dire «avere paura di perdere qualcosa», io dico no. Per me resistere è utile se il resistere sogna un cambiamento.
Fuori rotta è anche un progetto.
Sì. Ai ragazzi che hanno vent’anni adesso il progetto vuole suggerire l’andare fuori rotta come esperienza importante e abbiamo quindi deciso di proporre a questi ragazzi di poter viaggiare rispondendo a un bando che scadrà il prossimo 10 maggio. Una volta arrivate le proposte, verrà selezionato un gruppo di progetti fuori rotta che costituiranno, anche questi, movimenti di resistenza per cambiare le cose.
Tra i suoi viaggi, quale le è rimasto più dentro?
Il momento più forte, che mi ha fatto capire che c’era tanto da imparare, è stato quando ho preso la nave da Brindisi a Valona. A bordo io ero l’unico italiano – dico sempre per scherzare – non armato: tutti gli altri erano militari, Carabinieri o membri della Guardia di Finanza che andavano a fare cooperazione militare con l’Albania per fermare i flussi di emigrazione, e i cacciatori perché in Albania si poteva viaggiare senza permesso. Per cui accadeva che accanto a chi cercava di fermare i migranti che arrivavano coi barconi c’erano i nostri cacciatori che salivano in nave con i fucili e arrivavano armati a Valona senza che nessuno dicesse loro niente. Direi quel viaggio, quindi, e poi i mesi passati con i marinai della nave Kawkab a Marghera.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.