di Ètienne Balibar*
Accolgo volentieri l’invito di Stefano Rota dell’Associazione Transglobal a contribuire all’implementazione di una nuova sezione della rivista “Frontierenews”. Ciò è dovuto sia alla natura dei temi che si intendono trattare, oggetto di mio interesse e studio pluridecennali, sia al pubblico a cui la rivista si rivolge.
Una versione più completa di quanto tratto in questo articolo è contenuta nel numero 4 di “Translation Journal”, 2014, curato da Sandro Mezzadra e Naoki Sakai.
Quello che intendo affrontare in questo mio intervento è il tema della traduzione, del rapporto dialettico, giocato tra opposizione e intreccio, che si crea tra “paradigma del conflitto” e “paradigma della traduzione”, della definizione di straniero come “nemico” e della “doppia alterità” che connota lo status di straniero stesso. Questi tre elementi stanno alla base di un modello di cittadinanza centrato sul ruolo del confine – dei molteplici confini – attorno a cui si costruisce l’opposizione tra “l’altro”, lo “straniero”, e il cittadino. Come vedremo, la traduzione ricopre in questo senso un ruolo tutt’altro che marginale.
Nel saggio a cui ho fatto riferimento sopra, lo stesso tema viene inserito in un’analisi più complessa e, forse, non adatta allo spazio che intendo occupare qui. Si parte, in quella sede, dall’uso e dalla rilevanza di nozioni come “cosmopolitismo”, “cosmopolitica” e “universalità” nella attuale congiuntura e nel discorso politico globale. Muovendo dalla considerazione che tali termini sono stati epistemologicamente e costantemente proposti in chiave eurocentrica, anche dal punto di vista linguistico (da qui, appunto, il paradigma della traduzione), l’obiettivo di quel mio lavoro – e conseguentemente di questo intervento – è quello di oltrepassare e rovesciare dialetticamente, decostruire tale centralità, così come gli studi postcoloniali indicano da alcuni decenni, come condizione di base per avviare un autentico discorso cosmopolitico e, quindi, di modelli di cittadinanza che vadano oltre le stratificazioni codificate nella nozione stessa di Stato-nazione di origine coloniale ed estese ai sistemi di governance europea.
Perché parlo di “paradigma del conflitto”? L’elemento centrale della politica contemporanea, che spinge la stessa sul piano della “cosmopolitica”, va trovato nel modo in cui essa regola e governa i conflitti. Ciò significa, in ultima istanza, creare consenso ed egemonia, al di là del declinante monopolio dello Stato-nazione, sulla sua capacità di creare pace e ordine all’interno di determinati confini territoriali.
Ciò è strettamente collegato al tema dell’insicurezza, o risk society, a livello globale, e al modo in cui si definiscono e gerarchizzano le “diverse forme” di insicurezza nella percezione di attori e strutture di potere nel mondo contemporaneo.
Da qui deriva l’attenzione che ho posto negli ultimi due decenni sulla trasformazione storica dei confini e delle frontiere, come istituzioni che, ben oltre la loro funzione di marcare la condizione esterna per la costituzione dello Stato-nazione territoriale, rappresentano una condizione interna, semi-trascendentale, per la definizione di cittadino e della comunità dei cittadini, quindi quella combinazione di inclusione ed esclusione che determina ciò che la Arendt ha chiamato “spazio intermedio” di azione politica, al cui interno prende forma il diritto ad avere diritti. La combinazione di esperienze soggettive e trasformazioni strutturali oggettive (per loro natura altamente instabili) definisce una “fenomenologia del confine” che ci consente di evidenziare tre punti:
1. la contrapposizione tra “conflitto” e “traduzione”;
2. l’equivoca definizione di straniero e la sua riduzione alla figura di nemico nello scenario delle guerre di confine contro i migranti;
3. la “doppia alterità” che condiziona lo status e la rappresentazione degli stranieri nell’Europa odierna.
I confini sono interni e esterni, soggettivi e oggettivi. Sono imposti da politiche di stato, limitazioni giuridiche, controlli sulla mobilità e comunicazione umana, ma sono anche profondamente radicati nelle identificazioni collettive e nel senso comune di appartenenza. Possiamo andare oltre, dicendo che i confini lavorano all’interno di paradigmi opposti, specificamente quelli che ho chiamato “paradigma del conflitto” e paradigma della traduzione”. Questi due paradigmi usano modelli antitetici per la costruzione dello straniero, per l’istituzionalizzazione di differenze tra il “noi” e il “loro”: si tratta in entrambi i casi di modelli allo stesso tempo esclusivi e non-esclusivi.
In conseguenza di ciò, definisco il confine come un luogo “eterotopico” – nel senso che Foucault dà a questo termine – , cioè a dire un luogo di eccezione, dove le condizioni di vita quotidiana, sono “normalmente sospese”. Sono i confini, il loro tracciato e rafforzamento, le loro interpretazioni e negoziazioni che “creano” popoli, lingue, razze e genealogie.
Proviamo a vedere tutto questo in funzione della comparsa delle “frontiere europee”, le quali necessitano di continue dislocazioni e nuovi tracciati. Come primo punto, vorrei enfatizzare il fatto che i confini e le frontiere sono dispositivi di warfare (o della sua sospensione, sulla base di trattati e accordi internazionali) e di traduzione, o scambio linguistico. Le comunità linguistiche e le comunità politiche devono condividere le stesse frontiere, costruite e rafforzate per mezzo di istruzione, letteratura, giornalismo e comunicazione, come Benedict Anderson ha dimostrato nel suo studio sulle “comunità immaginate”.
La costruzione di frontiere per mezzo della guerra e della sospensione della guerra, la loro interiorizzazione attraverso la comunità linguistica e la possibilità di traduzione sono due modelli chiaramente antitetici, senza che questo implichi però la loro totale e reciproca estraneità, ma, al contrario, marcando continui momenti di interferenza.
In talune circostanze, la guerra irrompe attorno alla traduzione e la traduzione rimane dentro la guerra, in quanto implica un confronto con le differenze conflittuali, con l’irriducibile “differend” dall’altro (secondo la terminologia di Loytard), che può essere dislocata ma non abolita, riapparendo sotto la specifica forma di consenso e comunicazione.
Tale reciprocità tra guerra e traduzione dentro la costituzione di strutture di potere culturale è stata enfatizzata dagli studi postcoloniali, in riferimento sia alle vecchie “periferie”, sia ai vecchi “centri”, laddove sono state create e istituzionalizzate le cosiddette lingue “universali” o “internazionali”. Credo si possa dire che ciò che caratterizza la nostra esperienza del mondo globalizzato è una nuova intensità di questa sovrapposizione di guerra e traduzione. Ciò in ragione del fatto che, da un lato, le forme di guerra che si dispiegano all’interno dell’economia della violenza globale sono ancora più sanguinarie del passato: l’etnocidio e la guerra culturale sono, nella vastissima eterogeneità delle forme che assumono, parte integrante di questa economia. Dall’altro lato, il lavoro di traduzione è un modo per riconoscere l’irriducibile natura di elementi intraducibili. Nel processo di globalizzazione, tale lavoro è diventato via via più complesso e conflittuale: in un mondo postcoloniale, la gerarchia degli idiomi, cioè a dire delle possibilità di traduzione verso la stessa “lingua di riferimento”, sta diventando sempre meno incontestabile e unilaterale. La traduzione viene continuamente forzata e semplificata dentro la disciplina monolinguistica della comunicazione di internet.
L’associazione di gerarchie linguistiche con le frontiere e le identità collettive si manifesta chiaramente come struttura di potere nazionale e transnazionale. È nella possibilità per lingue come Urdu, Turco, Arabo di essere riconosciute come parti uguali nella “conversazione” tra le popolazioni dell’Europa multinazionale e multiculturale, di assumere, quindi, lo stesso status delle lingue “autenticamente” europee, che si annida una conflittualità politica latente, un interrogarsi sulle sovranità costituite.
Questo mi conduce al secondo aspetto della fenomenologia delle frontiere: l’equivoca definizione di straniero. Zygmunt Bauman evidenzia come “tutte le società producono stranieri, ma ogni tipo di società produce il suo specifico tipo di straniero, e lo produce in modo inimitabile”. La questione mai definitivamente risolta è se l’esistenza di frontiere ha creato lo straniero, o se la preesistenza di differenze tra nazioni e genealogie ha condotto all’istituzione delle frontiere e alla chiusura dei territori.
Sembrerebbe che l’istituzione di nuove frontiere europee e il modo in cui vengono rafforzate contro le pratiche di autodeterminazione e di diritto alla circolazione da parte delle popolazioni migranti e rifugiate, getti una luce sinistra su questo tema, a causa del suo carattere discrezionale, ricapitolato nelle regole che sono maturate attorno all’applicazione del trattato di Schengen.
Come ho argomentato in un mio precedente scritto, la costituzione della cittadinanza europea porta con sé un processo di incorporamento di coloro che sono già cittadini di uno stato membro e di esclusione di chiunque, anche se residente permanentemente in un paese europeo, proviene da aree extracomunitarie. Tale esclusione segna oggi una netta discriminazione tra i non-nazionali: alcuni stranieri (“concittadini europei”) sono diventati meno stranieri, in termini di diritti e status sociale (non sono più esattamente stranieri), mentre gli altri stranieri, gli “extracomunitari”, e in particolare i lavoratori immigrati e rifugiati dal Sud, sono adesso più che stranieri, per così dire -sono gli alieni assoluti sottoposti a razzismo istituzionale e culturale.
Le operazioni violente di polizia (tra cui l’istituzione di campi) eseguite da parte di alcuni Stati europei, a nome di tutta la comunità (con l’aiuto di Stati clienti vicini, come la Libia o il Marocco), costituiscono la cifra della guerra di confine permanente contro i migranti. La tendenza alla riduzione dello straniero, dell’”autentico straniero,” ad un concetto di nemico virtuale costituisce uno dei segni più evidenti di crisi dello stato-nazione, della forma storica nazionale dello stato.
Il carattere ambivalente del sistema politico che si sostanzia in questa tendenza alla diversificazione dello status di straniero, fa sì che intere popolazioni oscillino adesso tra una condizione di outsider e una di insider, nella costruzione di un ordine postnazionale e postcoloniale: l’Europa appare, in questo senso, come un “laboratorio” violento e conflittuale, al cui interno gli stranieri potrebbero diventare (e molto spesso in realtà diventano), sia nemici interni, sia cittadini addizionali, la cui differenza dilata a dismisura la trama dei diritti e la legittimità democratica delle istituzioni.
Parto da qui per affrontare il terzo punto. Il fallimento del tentativo di elaborare una Costituzione europea nel 2005 è riconducibile a un revival di sentimenti nazionalistici che si riversano inevitabilmente sullo straniero, sia in quanto altro cittadino europeo, sia come parte della popolazione migrante non europea (o da essa discendente). Questo è ciò che io chiamo la difficoltà cosmopolitica dell’Europa di affrontare la sua doppia alterità, una interna e una esterna, non più rappresentabili in spazi assolutamente separati. E’anche la difficoltà dell’Europa a sganciare la gestione delle sue “frontiere esterne” dall’insieme delle esperienze storiche che si sono accumulate attorno alle sue “frontiere interne”. E d’altro canto risulta evidente che non è possibile abolire questa distinzione e ritornare ad uno status classico dei confini nazionali e di definizione dello straniero.
Per dirla in una frase, il razzismo europeo nei confronti della popolazione migrante “extra-europea”, che ostacola lo sviluppo di movimenti sociali contro le politiche neoliberiste, è anche il risultato di una proiezione del sentimento nazionalista che oppone tra loro le nazioni europee, solo superficialmente attenuata dalla costruzione europea nella sua forma attuale. Rappresenta sia la conseguenza di una xenofobia reciproca repressa, sia l’incapacità da parte delle nazioni europee, la riluttanza degli Stati europei, a concedere ai migranti e alle popolazioni di origine migrante parità di diritti e riconoscimento. Questo, d’altro lato, impedisce agli europei di immaginare di poter risolvere i loro problemi sociali e politici comuni più urgenti come appartenenti a un unico contesto, per dare origine a una istanza nuova e maggiormente “cosmopolitica” nella storia della cittadinanza democratica.
Si potrebbe parlare di una “nazione mancante” nel cuore dell’Europa, una nazione fatta di diverse comunità di migranti di antico insediamento, con storie diverse e un destino finale simile, ma anche con alcuni tratti culturali comuni facilmente identificati come minacce per la cultura europea.
Questa nazione mancante nel mezzo ritorna in modo fantasioso sotto forma di nemico interno virtuale. Da qui, la difficoltà per tutte le altre nazioni di potersi percepire come costituenti un unico ambito, privandoli così della capacità di influenzare collettivamente le tendenze globali della politica, della cultura e dell’economia.
*Étienne Balibar è nato nel 1942. Laureatosi alla École Normale Supérieure e alla Sorbonne di Parigi, ha poi ottenuto il dottorato di ricerca dalla University of Nijmegen. Dopo aver insegnato in Algeria e in Francia, è attualmente Anniversary Chair di Contemporary European Philosophy alla Kingston University, Londra, e Visiting Professor alla Columbia University, New York. Tra i suoi libri ricordiamo Reading Capital (con Louis Althusser) (1965), Race, Nation, Class. Ambiguous Identities (con Immanuel Wallerstein) (1991), Masses, Classes, Ideas (1994), The Philosophy of Marx (1995), Spinoza and Politics (1998), We, the People of Europe? Reflections on Transnational Citizenship (2004), e Identity and Difference (2013).
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