I giochi di Baku e il lato oscuro dell’Europa

Il regime di Baku è riuscito dove Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia avevano fallito: una transizione di padre in figlio alla guida del paese. Dopo un decennio esatto di potere di Heydar Aliyev il testimone è passato al figlio Ilham, che è tuttora presidente, padre e padrone della nazione caucasica.

di Simone Zoppellaro

Il 12 giugno prossimo saranno inaugurati i primi Giochi europei della storia, una sorta di olimpiadi continentali di nuovo conio che d’ora in avanti si ripeteranno a cadenza regolare ogni quattro anni. Per questa prima edizione, 50 saranno le nazioni coinvolte, e oltre 6.000 gli atleti partecipanti. Si stima che siano stati investiti 8 miliardi di dollari nell’evento, pari a circa l’11% del PIL del paese che quest’anno ha organizzato i Giochi. Quanto alla città ospitante, non si tratta però di una delle capitali europee più conosciute. Molti sportivi, che seguiranno di qui a breve le gesta atletiche dei loro campioni, non l’avranno anzi mai sentita nominare – c’è da giurarci: è Baku, città situata nel Caucaso meridionale e che si affaccia sul Mar Caspio, parte fino a poco tempo fa dell’Unione Sovietica.

Meno esotico – anche se forse di altrettanta difficile collocazione – risulterà per quegli stessi tifosi il nome del paese di cui la città è capitale: l’Azerbaigian, “terra del fuoco” (Land of fire), come si legge sulle magliette di alcune squadre di calcio piuttosto note. Il brand del paese caucasico ha conquistato infatti sia l’Atledico Madrid che il Lens, e si è parlato di recente anche di una possibile sponsorizzazione di una squadra italiana, la Lazio. Una visibilità guadagnata a suon di milioni di euro, nel caso del club spagnolo, e capace addirittura di salvare il team da una bancarotta, per i francesi del Lens. Altri club, come il Peñarol e il San Lorenzo in Sudamerica, hanno preferito declinare invece le sostanziose offerte provenienti da Baku. Ma cosa si nasconde dietro questi investimenti ingenti nello sport da parte dell’Azerbaigian? Qual è la ragione di questo interesse?

La risposta, a ben guardare, suona piuttosto inquietante: l’Azerbaigian è una dittatura nutrita di gas e petrolio che utilizza lo sport per nascondere la mancanza di libertà, la corruzione dilagante e i continui soprusi perpetrati dal suo regime. I Giochi di Baku, più che una grande festa dello sport e dell’Europa, sono così nelle intenzioni di chi li ospita innanzitutto una celebrazione di una famiglia, quella degli Aliyev, che detiene incontrastata il potere dal 1993 fino ad oggi, ovvero per la quasi l’intera storia della giovane repubblica dell’Azerbaigian, nata nel 1991 con la dissoluzione dell’URSS.

Così, a ben guardare, il regime di Baku è riuscito dove Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia avevano fallito: una transizione di padre in figlio alla guida del paese. Dopo un decennio esatto di potere di Heydar Aliyev, che ancor prima era stato segretario del partito comunista in epoca sovietica nonché capo del KGB azero, il testimone è passato al figlio Ilham, che è tuttora presidente, padre e padrone della nazione caucasica.

Per farsi un’idea di che cosa sia oggi l’Azerbaigian, basta guardare le graduatorie internazionali relative alla libertà di stampa. Secondo il World Freedom Press Index stilato da Reporter senza frontiere nel 2015, il paese caucasico sarebbe in fondo alla classifica, al 162° posto su un totale di 180 paesi: peggio dell’Azerbaigian, solo una dozzina di paesi al mondo fra cui l’Arabia Saudita, la Corea del Nord e l’Eritrea. Un posto non lusinghiero, che la dice lunga sulla repressione del dissenso esercitata dal regime di Aliyev. Al di là dei numeri, la situazione appare per molti aspetti drammatica e in continuo deterioramento. Giornalisti, blogger e attivisti affollano a decine le carceri del paese nell’indifferenza di una buona parte della comunità internazionale. Nell’ultimo anno, inoltre, c’è stato un giro di vite senza precedenti.

Eppure, a essere arrestati sono forse i volti più noti della società civile azera, non certo degli emeriti sconosciuti. Figure con cui, come mi spiega un’amica che ha lavorato nella diplomazia europea a Baku, i nostri diplomatici e le ONG straniere avevano a che fare più o meno quotidianamente, prima che finissero dietro le sbarre. Fra loro, ricordiamo almeno i coniugi Leyla e Arif Yunus, attivisti per i diritti umani, finiti dentro nel luglio 2014, o ancora l’avvocato e attivista Rasul Jafarov, incarcerato ad agosto.

O la giornalista investigativa Khadija Ismayilova, per la quale è stata annunciata pochi giorni fa un’estensione della sua permanenza in carcere, iniziata nel dicembre scorso. E tutto questo in barba all’inaugurazione dei Giochi, ormai imminente. Una prova di forza e una dimostrazione di sicurezza nei propri mezzi, da parte del regime, che evidentemente non teme contraccolpi. Ma com’è possibile che ciò avvenga senza destare reazioni da parte dell’Europa, paladina dei diritti umani nel mondo?

La chiamano la diplomazia del caviale, dall’uso in voga qualche tempo fa, da parte degli azeri, di donare le preziose uova di storione a membri dell’europarlamento. Ma anche di viaggi premio, costosi regali, e composta da una rete di influenze sempre più ampia legata a finanziamenti a think tank, rivistine varie e centri di ricerca che si occupano a tempo pieno (compito piuttosto ingrato, invero) di stendere apologie del regime di Aliyev. Un fenomeno che riguarda anche l’Italia e che conosce bene chiunque operi nel settore. Quando poi, a tutto questo, si aggiungano i fortissimi interessi legati all’approvigionamento energetico, il quadro risulterà completo. In questo senso, il progetto del Gasdotto Trans-Adriatico (più conosciuto con l’acronimo TAP) che porterà nel meridione d’Italia il gas azero, è solo l’ultimo di una serie.

Eppure, anche a far orecchie da mercante, si resta con l’amaro in bocca. Che fine fa la presunta superiorità morale dell’occidente, se poi finiamo per tacere sulle violazioni dei diritti più elementari che avvengono sotto il nostro naso, e anche sotto le nostre belle bandiere? A Baku, fra pochi giorni, si celebrerà qualcosa che va oltre lo sport, che ci piaccia o meno. Si celebra il lato oscuro dell’Europa, la sua falsa coscienza.


Profilo dell'autore

Simone Zoppellaro
Simone Zoppellaro
Giornalista freelance. Autore dei libri “Armenia oggi” (2016) e "Il genocidio degli yazidi" (2017), entrambi editi da Guerini e Associati. Collabora con l’Istituto Italiano di Cultura a Stoccarda e con l'ONG Gariwo - La foresta dei Giusti.

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