Gli effetti dell’apartheid e del colonialismo sono ancora del tutto presenti in larga parte delle società africane: il senso di marginalizzazione, l’inferiorizzazione di sé e dell’altro, la rigidità di schemi che spingono a percepirsi come estranei al proprio stesso Stato-nazione, l’aggressività di un modello di sviluppo economico che ha accentuato gli squilibri, i danni ambientali e l’esproprio delle terre, insieme allo stesso sistema di cooperazione internazionale che, al di là della riproposizione di paradigmi top-down, non è stato in grado di fornire risposte efficaci al problema della povertà, sono elementi che agiscono sulla vita quotidiana e producono distacco, sgretolamento, sfiducia.
di Giovanni Gugg
Negli ultimi anni al tema della violenza di massa sono state dedicate numerose analisi e riflessioni, ciascuna volta ad illuminare differenti aspetti di una realtà complessa e sfaccettata, ambigua e mutevole. D’altra parte, i mezzi di comunicazione e d’informazione non mancano di fornircene quotidianamente svariati esempi; così passiamo con rapidità dalla notizia di un riot a quella di una spedizione punitiva, dal servizio su una provocazione gratuita a quello su una violenza “di branco”, da articoli che alludono a varie forme di crudeltà ad altri che trattano di scontri tra ronde di periferia. Ogni forma di violenza collettiva, ogni caso di cronaca, andrebbe indagato a fondo per comprenderne le cause e gli antefatti, gli sviluppi e i meccanismi, ma spesso non ne abbiamo il tempo (o la voglia) e allora non resta che un titolo – o qualche parola – a rimbombarci nella testa. Mi è capitato qualche settimana fa, agli inizi di aprile, leggendo di “violenze xenofobe in Sud-Africa”, efficacemente commentate da una vignetta di Victor Ndula (pubblicata dal giornale kenyota “The Star”) in cui uno sconsolato Nelson Mandela piange e pensa «Non riconosco più questo Sud Africa», dinnanzi alla bandiera del Paese – resa in forma di arcobaleno – che si tinge di nero.
Poi è arrivata la possibilità di collaborare con “Frontiere News” attraverso un blog e allora ho deciso di tornare sull’eco di quella notizia e di provare a rispondere ad un quesito ricorrente tra i commenti dei socialmedia: neri sudafricani xenofobi? ma come, proprio loro che hanno subito l’apartheid?
La domanda svela innanzitutto uno iato mentale perché mette in luce il forte contrasto tra realtà e rappresentazione (che ne abbiamo dall’esterno), cioè tra un quotidiano ancora estremamente difficile e violento (che ignoriamo ampiamente) e un racconto di pacificazione e progresso economico appiattito sulla figura di un eroe (Madiba, appunto) con cui cullare la coscienza.
Le violenze xenofobe scoppiate a Durban alla fine di marzo e poi estesesi a Johannesburg e a varie township per tutto il mese di aprile (sette morti, 5.000 sfollati e almeno 900 immigrati rimpatriati volontariamente) non sono le prime; già a gennaio a Soweto c’erano stati sei morti e la fuga di numerosi commercianti stranieri scampati a saccheggi e incendi. In Sud Africa, tuttavia, è molto tempo che si registrano centinaia di attacchi xenofobi (nel solo 2012 ne sono stati denunciati 238), almeno dalla sanguinosa ondata di violenza del maggio 2008, quando ci furono 62 morti, centinaia di feriti e 100.000 (o più) trasferimenti (fonte: South African Human Rights Commission, 2010, pdf).
Ci troviamo, dunque, di fronte a qualcosa che non può essere definito imprevisto, improvviso o inedito, ma di cui, anzi, è ormai possibile individuare regolarità e meccanismi, se non sintomi e presupposti.
Il 20 marzo, intervenendo ad un incontro di “rigenerazione morale” della comunità Pongolo, Goodwill Zwelithini, il re del gruppo etnico degli Zulu, il più numeroso del Sud Africa, ha detto che gli immigrati «dovrebbero fare le valigie e andarsene» e che «sporcano le nostre strade». La carica di Zwelithini è simbolica, ma ha un grande prestigio, per cui il suo discorso – che non era a braccio – ha avuto molta risonanza: se da un lato le sue parole sono state definite «altamente irresponsabili» da Phumzile Van Damme, portavoce nazionale del partito di opposizione “Democratic Alliance”, dall’altro lato il re ha ricevuto l’appoggio di Edward, il figlio di Jacob Zuma, presidente della repubblica: «Dobbiamo essere consapevoli che siamo seduti su una bomba a orologeria e che loro [gli stranieri] si stanno prendendo tutto il Paese».
Successivamente, però, dinnanzi all’ampiezza delle violenze il re ha precisato di non aver mai ordinato alcun attacco agli immigrati, ma di aver fatto riferimento solo a quelli irregolari e che, comunque, la situazione è aggravata dai politici che, per paura di perdere consenso, non vogliono affrontare il “problema”.
Il discorso politico ultranazionalista ed etnicizzante è un fenomeno presente da diversi anni in Sud Africa, spesso messo in relazione – anche nel caso più recente – con la notevole crescita economica del Paese. Dopo la fine dell’apartheid nel 1994, si è registrato un notevole aumento complessivo della ricchezza (il PIL sudafricano rappresenta circa un quinto di quello dell’intero continente) che, per quanto accolto favorevolmente da tanti, ha anche accentuato le disuguaglianze sociali ed economiche, soprattutto tra bianchi e neri. Ciò ha favorito l’arrivo di immigrati dai paesi vicini (Zimbabwe, Zambia, Mozambico, Malawi) e lontani (Nigeria, Etiopia, Pakistan e Bangladesh), al punto che attualmente si calcola siano circa il 5% della popolazione, ovvero 2 milioni e mezzo di persone. Il progetto migratorio ha sempre lo stesso fine: migliorare la propria condizione economica e di vita, ma ora il boom sudafricano ha rallentato e il tasso di disoccupazione è tornato a livelli molto alti: il 25%. Com’è facile intuire, pertanto, parecchi leader politici hanno usato – e continuano ad usare – il tema dell’immigrazione come giustificazione della povertà e della frustrazione cui sono costretti tanti sudafricani, al punto che sono le stesse leggi sull’immigrazione a “produrre” malcontento: fattesi via via più restrittive, tali misure hanno spinto in una condizione di insicurezza e instabilità un numero crescente di persone che in precedenza erano del tutto in regola, esponendole ad una precarietà altamente vulnerabile.
Ma crisi e disoccupazione (e apparente disinteresse per le possibili conseguenze economiche che potrebbero derivare dagli appelli al boicottaggio contro i prodotti sudafricani dopo le ultime violenze) non sembrano essere sufficienti a spiegare il diffondersi del fanatismo nazionalista e di quella che Mbembe definisce “ideologia” xenofoba. Come osservavano già nel 2010 gli autori dello studio “Go home or die here. Violence, xenophobia and the reinvention of difference in South Africa”, sugli eventi del 2008, i governanti confondono povertà e disuguaglianza: «Costruire degli alloggi non basta a ridurre la povertà, se non ci sono anche lavoro, trasporti o infrastrutture. Accedere agli aiuti sociali permette di sopravvivere, ma non fa sperare in una vita diversa».
È dunque intorno all’idea di speranza – che quando c’è è un privilegio – che forse può essere individuata la ragione strutturale di una violenza così odiosa come quella xenofoba. Gli effetti dell’apartheid e del colonialismo sono ancora del tutto presenti in larga parte delle società africane: il senso di marginalizzazione, l’inferiorizzazione di sé e dell’altro, la rigidità di schemi che spingono a percepirsi come estranei al proprio stesso Stato-nazione, l’aggressività di un modello di sviluppo economico che ha accentuato gli squilibri, i danni ambientali e l’esproprio delle terre, insieme allo stesso sistema di cooperazione internazionale che, al di là della riproposizione di paradigmi top-down, non è stato in grado di fornire risposte efficaci al problema della povertà, sono elementi che agiscono sulla vita quotidiana e producono distacco, sgretolamento, sfiducia.
Gli ex-colonizzati e gli ex-discriminati si trovano (ancora) in quello che nel 1961 Frantz Fanon definiva «tempo della deflagrazione», cioè nella condizione in cui si realizza una contraddizione esplosiva: «reclamare e rinnegare, simultaneamente, la condizione umana». A proposito delle violenze xenofobe dei decolonizzati, ne “I dannati della terra” Fanon scrive una pagina che potrebbe essere usata ancora oggi come editoriale di quanto avviene in Sud Africa, un’analisi che non permette assoluzioni a cinquant’anni di distanza e che non consente silenzi a migliaia di chilometri di lontananza perché quella condizione, quello “stato di emergenza” non è più l’eccezione ma, come era stato previsto, è la regola:
Nella Costa d’Avorio, sono le sommosse propriamente razziste antidahomeiane e antivoltaiche. I dahomeiani e i voltaici che occupavano nel piccolo commercio settori cospicui sono oggetto, all’indomani dell’indipendenza, di manifestazioni di ostilità da parte degli avoriesi. Dal nazionalismo siamo passati all’ultranazionalismo, allo sciovinismo, al razzismo. Si esige la partenza di quegli stranieri, si bruciano i loro negozi, si demoliscono le loro baracche, li si lincia ed effettivamente il governo avoriese intima loro di partire, dando così soddisfazione ai nazionali. […]
Mentre certi strati del popolo senegalese colgono l’occasione che viene loro offerta dai loro dirigenti di sbarazzarsi dei sudanesi che li ostacolano, sia nel settore commerciale, che in quello dell’amministrazione, i congolesi, che assistevano senza credervi alla partenza in massa dei belgi, decidono di far pressione sui senegalesi impiantati a Léopoldville e a Elisabethville e di ottenere la loro partenza.
Come si vede, il meccanismo è identico nei due ordini di fenomeni. Se gli europei limitano la voracità degli intellettuali e della borghesia d’affari della giovane nazione, per la massa del popolo delle città la concorrenza è rappresentata principalmente da africani d’una nazione diversa. Nella Costa d’Avorio sono i dahomeiani, nel Ghana i nigeriani, nel Senegal i sudanesi. […]
Dallo sciovinismo senegalese al tribalismo “ouolof” la distanza è relativamente breve. E, di fatto, dovunque la borghesia nazionale con il suo comportamento meschino e la imprecisione delle sue posizioni dottrinali non è potuta pervenire a illuminare l’insieme del popolo, a porre i problemi anzitutto in funzione del popolo, dovunque questa borghesia nazionale si è rivelata incapace di dilatare sufficientemente la sua visione del mondo, si assiste a un riflusso verso le posizioni tribaliste; si assiste, con la rabbia nel cuore, al trionfo esacerbato delle etnie.
(Non aggiungerò altre parole, per cui concludo qui il mio primo post su “Il gallo di Bali”; ben trovati).
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