di Yuval Neria – Professore di Psicologia medica e direttore del Programma “Traumi e disordini da stress post-traumatici” presso la Columbia University
Da quando è riemerso in tutta la sua letale viralità nell’estate 2015, Ebola ha falciato intere comunità dell’Africa occidentale, uccidendo migliaia di persone, creando paura, ansia, sfiducia e – in alcuni casi – violenza. La diffusione del virus è stata grossomodo arrestata e diversi sono stati i passi avanti nella prevenzione, nella cura e nello sviluppo dei vaccini. Ma sono state ampiamente sottovalutate le conseguenze che questa tragica fase ha procurato sulla salute mentale delle popolazioni colpite.
Finora sono stati fatti pochissimi sforzi – e senza alcuna coordinazione, nella maggior parte dei casi – per rispondere ai bisogni psicologici delle vittime, dei loro parenti e dei team medici. E comunque non vi sono stati progetti strutturati e organizzati. Di conseguenza devono ancora essere sperimentate le procedure – con base scientifica, sia sul piano della prevenzione che della cura – da usare, in caso di successo, per sanare le ferite interiori di queste categorie di persone.
Individuare i bisogni
L’esposizione a eventi estremamente traumatici (quali sono ad esempio la mortalità di massa, la perdita dei genitori, l’assenza di lavoratori sanitari, la carenza di medicine, cibo e risorse, la stigmatizzazione delle famiglie delle vittime) rappresenta un altissimo fattore di rischio di contrarre problemi mentali come ansia, depressione, angoscia e disordini da stress post-traumatici (PTSD). La mancanza di un sistema che possa tutelare la sanità mentale – e in alcuni casi anche la forte povertà – aumenta in maniera esponenziale questi rischi.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato l’attività di cura interiore nelle aree colpite da Ebola, ma è disperatamente necessaria una risposta medica che sia dinamica, sistematica e basata su ricerche per alleviare le gigantesche conseguenze della crisi.
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L’esplosione del virus Ebola ha esposto una larghissima fetta della popolazione colpita al rischio di sviluppare disordini mentali, soprattutto tra i sopravvissuti che ora soffrono a causa della stigmatizzazione o che piangono i propri cari defunti. Così come il personale medico-sanitario e coloro che hanno lavorato in questi mesi per seppellire le vittime.
I programmi dovrebbero ora includere misure – basate su elementi scientificamente deducibili – per dare equilibrio psicologico ai sopravvissuti e per attuare terapie di riabilitazione dal trauma. Ad esempio l’esposizione prolungata – che riduce lo stress attraverso un’attenta ma ripetuta esposizione a pensieri, sensazioni e situazioni che sono legati al trauma e che i pazienti hanno più o meno coscientemente nascosto – trattamenti interpersonali, interventi medici appropriati, siano essi con o senza psicoterapia. In casi di angoscia prolungata (e significativa da un punto di vista clinico) andrebbero seguite delle specifiche procedure.
Limitare l’esposizione
Il virus Ebola ha provocato, su larga scala, comportamenti dettati dalla paura. Pazienti con sintomi del virus sono fuggiti dagli ospedali, parenti disperati hanno tentato rimedi domestici per i propri cari malati. Molte famiglie hanno anche seppellito clandestinamente i parenti morti, contraendo a loro volta il virus. In molti casi questi comportamenti sono dovuti alla povertà, all’ignoranza e all’impossibilità di ricevere cure adeguate, ma anche alla quotidiana e dolorosa esposizione alle devastanti emorragie dei pazienti e ai segni della malattia sui cadaveri. Margaret Chan, direttrice generale dell’OMS, ha dichiarato che questi comportamenti hanno accelerato la trasmissione del virus Ebola.
I sistemi sanitari hanno inoltre dovuto convivere con molte voci di corridoio, spesso propagate dalla disinformazione di media incompetenti e da comunicati dei vari istituti di sanità pubblica che si sono rivelati essere inadeguati. Affrontare la diffusione della pandemia è una cosa, ma nel futuro avremo bisogno di prevenire o quantomeno limitare i fattori che hanno portato a comportamenti del genere, dettati dalla paura. Questo è un appello a programmi coordinati per superare barriere culturali, disparità di istruzione e mancanza di fiducia tra i parenti, tra coloro che si occupano dei pazienti e in generale tra i sistemi sanitari.
Per attenuare queste irrazionali paure e questa sbagliata gestione delle esigenze delle vittime, dovrebbero essere portati avanti misure per individuare le strutture che hanno attrezzature inadeguate e che non hanno un personale medico addestrato, equipaggiato e protetto. È fondamentale formare team di persone che – oltre a fornire conoscenza medica e cure pratiche – possano offrire assistenza psicologica a chi ne ha bisogno.
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