di Giovanni Gugg [illustrazione in copertina di Augusto Metztli]
Guardare?
Nel suo saggio «Davanti al dolore degli altri», citato spesso negli ultimi tempi, Susan Sontag scrive che «le fotografie sono uno strumento per rendere “reali” (o “più reali”) situazioni che i privilegiati, o quanti semplicemente non corrono alcun pericolo, preferirebbero forse ignorare». Secondo alcuni, la crudezza di certe immagini spingerebbe a “prendere coscienza” dell’orrore, permetterebbe di comprendere l’enormità e l’insensatezza di certe atrocità, che si tratti di guerra, carestie, persecuzioni, viaggi estenuanti e pericolosi attraverso montagne, deserti e mari. Ma Sontag sa bene che le fotografie non hanno un linguaggio univoco e, soprattutto, è consapevole che l’epoca contemporanea le consuma ad una velocità così vertiginosa che «è impossibile dare per scontato l’effetto provocato dall’immagine di una scena penosa».
Tre settimane fa ci siamo posti un quesito ricorrente: fotografare o non fotografare il dolore? Pubblicare o non pubblicare determinate immagini? Ogni giorno nelle redazioni dei giornali si decide cosa può essere diffuso e cosa no, scelte di questo tipo vengono compiute regolarmente, senza che si apra ogni volta un dibattito pubblico. Alla fine di agosto, ad esempio, erano apparse sul web le fotografie di decine di migranti morti, compresi tanti bambini, ritrovati davanti alla città libica di Zuwara, annegati mentre tentavano la traversata del Mediterraneo, eppure nessuno tra i principali mass-media le aveva pubblicate. Dopo pochi giorni, invece, il 2 settembre, la decisione di molte redazioni è stata opposta quando sui computer sono arrivate le istantanee del corpo di un bambino di 3 anni, Alan Kurdi, ritrovato morto su una spiaggia di Bodrum, in Turchia, affogato nel tentativo di raggiungere l’Europa con la sua famiglia in fuga da Kobane, in Siria (si è salvato solo il padre, mentre sono morti anche il suo fratellino più grande Ghalip, 5 anni, e la sua mamma Rehané). L’immagine del suo cadavere sul bagnasciuga, con il viso nella sabbia, ha riempito le prime pagine, ha aperto i telegiornali ed è stata proiettata in alcuni comizi politici.
Probabilmente la compostezza del corpo, la discrezione del volto, i colori della maglietta e del pantaloncino, la scena complessiva tra la vastità del mare e la minutezza del bambino hanno fatto optare per una esposizione di quella posa: una valutazione sicuramente non semplice, ma forse anche ormai obbligata dalla sua prodromica, rapida e massiccia circolazione sui socialmedia. A tutto ciò, però, vanno aggiunte due considerazioni: che abbiamo maggiore propensione a diffondere immagini crude di chi ci è lontano rispetto a chi ci è prossimo, come ha osservato Gipi, e che una foto non potrà mai bastare, se non ci si sforza «di capire il contesto, di documentarsi e, soprattutto, di indignarsi per tutti i bambini morti dal 2011 ad oggi», come ha sottolineato «Frontiere News».
Pubblicare?
Mario Calabresi, direttore de «La Stampa», ha motivato la sua scelta di pubblicare sostenendo che quella fotografia «pretende che ognuno di noi si fermi un momento e sia cosciente di cosa sta accadendo sulle spiagge del mare in cui siamo andati in vacanza». Addirittura, ha proseguito, si tratta di un’immagine che «farà la Storia» (lo hanno scritto anche altri) e non sono mancati paragoni con celebri e sconvolgenti fotografie dei decenni scorsi (anche sul «Wall Street Journal»). Tuttavia, ha evidenziato Valerio Cataldi, per adesso non possiamo sapere quale sarà il destino di quell’immagine, anche se, già a poche settimane dall’emozione collettiva, l’ipotesi di un effetto concreto sulla nostra società e sulle politiche adottate dall’Unione Europea verso i migranti e, in particolare, nei confronti di chi fugge da territori in cui imperversa la violenza, sembra alquanto lontana (ne ha scritto anche Fabio Chiusi).
La nostra parte di mondo “protetto” ha una certa propensione a commuoversi facilmente dinnanzi alle tragedie che scorrono sui monitor dei nostri televisori e computer: guardiamo scene che ci fanno momentaneamente inorridire, ma – come ha scritto Fergal Keane a proposito del caso rwandese – «non aggiungono niente alla nostra conoscenza e inducono in noi un sentimento che è stato memorabilmente definito “di compassione senza comprensione”».
Viene da domandarsi se la capillarità degli strumenti con cui oggi abbiamo accesso alle informazioni abbia migliorato la qualità delle stesse e la nostra capacità di intenderle. La velocità con cui viaggiano le notizie abbatte barriere spaziali enormi e la brevità con cui spesso sono riportate stimola nell’immediato, eppure questa mastodontica quantità di messaggi e di visioni che riceviamo favorisce una patologia della comunicazione che Joël Candau definisce “iconorrea”, una vera e propria perversione che può produrre oblio, piuttosto che memoria.
Arianna Ciccone, spiegando perché non avrebbe pubblicato la foto del bimbo annegato, ha scritto:
«La condivisione “virale” corre il rischio di svuotare, di avere un effetto “anestetizzante”, di scioccare senza informare, di alimentare una forma di slacktivism (una sorta di attivismo “da poltrona”, che non richiede grandi sforzi o impegni e coinvolgimento), in un meccanismo perverso, straniante, alienante: ho postato la foto, la mia coscienza è a posto, ho incassato la mia dose di like, e adesso andiamo avanti con le foto delle vacanze o i commenti sulla partita».
Lo stesso timore è stato espresso da Christian Caujolle:
«in questi tempi dalla velocità incontrollata, con le migliaia di immagini che sono arrivate dopo quelle drammatiche del bambino siriano, ho paura che queste fotografie saranno presto dimenticate. In modo vergognoso e inquietante. Ancora una volta questo probabile oblio ci deve far riflettere sulla nostra relazione con la memoria e quindi con la storia. Una riflessione terribile».
Di opinione diversa, forse, sarebbe stata Susan Sontag, che nel 2003 scriveva:
«La gente non si assuefà a quel che le viene mostrato a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. È la passività che ottunde i sentimenti. Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale e emotiva, in realtà traboccano di sentimenti: ciò che si prova è rabbia e frustrazione. [Tuttavia] sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono essere connessi a tali sofferenze».
Iconizzazione
Qualunque posizione si prenda o si sia presa in proposito, ormai il dato di fatto è che la foto di Alan si è propagata ovunque e, al contempo, si è tramutata in un’icona, nel senso che essa, spiega André Gunthert, «ben più di un semplice documento visuale, produce un simbolo autonomo, suscettibile di essere oggetto di appropriazioni multiple». Infatti, la foto del piccolo senza vita sulla spiaggia turca è stata modellata, modificata e manipolata in innumerevoli varianti, ciascuna per usi specifici e per interpretazioni proprie. La ragione va ricercata, chiarisce Philippe Dagen, nel fatto che l’immagine del bimbo curdo-siriano rinvia all’Occidente la sua memoria iconografica, ovvero quella del «massacro degli Innocenti».
Tuttavia, questa non è l’unica ragione, dal momento che alcune caratteristiche puramente visive e di indubbia presa emotiva sembra che abbiano giocato un ruolo decisivo nel realizzare quella che Marco Alloni definisce «una tragica forma d’arte messa in scena dalla realtà»: i colori vivaci rosso e blu dei vestiti rispetto all’opacità delle onde e della sabbia, la sproporzione del piccolo bambino in confronto alle dimensioni del mare e della spiaggia, la luce sui capelli e le scarpine ai piedi. Così, i disegni, le vignette, gli acquerelli, i fotomontaggi, i ritocchi realizzati a partire dallo scatto di Nilüfer Demir sono diventati incalcolabili, nonché espressione di una grande varietà di sensibilità e finalità (tra tali metamorfosi vanno inserite anche le foto di alcune teatralizzazioni collettive sulle spiagge di Gaza, di Rabat e della Turchia, in una forma di “solidarietà” che aveva già fatto discutere in un caso rilevato in Sardegna alcune settimane prima).
L’immagine shock è anche un’immagine cliché, si tratta di due facce della stessa medaglia, ma l’uso che ne viene fatto trascende dalle intenzioni del fotografo perché ogni immagine vive di vita propria, «sostenuta dalle fantasie e dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno», spiega ancora Susan Sontag. Nel caso della foto di Alan Kurdi, la comunità che la visualizza e interpreta è composta da centinaia di milioni di esseri umani, di nazionalità, religioni, ideologie, motivazioni molto differenti tra loro. E, infatti, è alquanto arduo classificare le mutazioni cui è stata sottoposta quell’immagine, i cambiamenti – talvolta delle semplici sfumature, talaltra delle vere reinvenzioni – con cui è stata riproposta, reinterpretata, ricollocata nell’immaginario di ciascuno.
Sfumature di senso
In dieci giorni, ho archiviato oltre 250 di tali raffigurazioni; organizzarle entro tipologie precise non è semplice, anche perché in alcuni casi sembrano avere molteplici chiavi di lettura. Tuttavia, possono essere individuati almeno cinque ambiti principali, a loro volta distinti in sottoinsiemi più specifici.
Innanzitutto, vi sono immagini di natura esplicitamente politica, ovvero che sono rivolte a entità governative nazionali o sovranazionali, ad esponenti politici precisi e a istituzioni internazionali; se ne contano di critica all’Unione Europea e alle ricche monarchie del Golfo Persico, agli Stati Uniti e all’Onu, ma anche a specifici leader europei o mediorientali. Tra le altre, un coccodrillo piangente (riecheggiamento di una commozione facile e ipocrita) è ritratto una volta con le stelle europee sul ventre, un’altra con una kefiah sul capo, un’altra ancora avvolto tra le mura della “Fortezza Europa”.
In secondo luogo, vi sono illustrazioni di carattere religioso, con la presenza di angeli (lo stesso Alan talvolta ha delle grandi ali), di anime di altri bambini che lo accolgono sulle nuvole o di figure sacre come Gesù, la Madonna e Dio stesso. In particolare, vi sono alcuni disegni che alludono a Mosè mentre apre le acque del mare (e poi i cancelli dell’Unione Europea), in un’estetica che, alimentandosi al contempo di elementi di cronaca e di episodi biblici, aspira ad essere terreno di convergenza per le tre confessioni abramitiche.
Vi sono, poi, rappresentazioni che rimandano all’incredulità e alla pietà per una morte profondamente ingiusta: il piccolo Alan non era un pericolo e non doveva trovarsi in pericolo. In questa elaborazione, pertanto, il bambino dorme tranquillo in una culla o su un soffice cuscino, protetto da una coperta grande come il mare e circondato di peluche e giocattoli; sogna e porta in mano un palloncino, passeggia sul bagnasciuga o gioca con la sabbia ed una barchetta; oppure è pianto da una mamma o da personaggi per bambini come Mafalda, Bart Simpson, i Minion, gli amici di Snoopy, il Piccolo Principe. In questa tipologia rientra anche la rappresentazione antropomorfa del pianeta Terra che abbraccia calorosamente il bambino o scoppia in lacrime accorgendosi della sua morte.
Altre immagini si focalizzano, invece, su alcuni contrasti, come la fragilità e la delicatezza del bambino rispetto all’imponenza e alla potenza del mare, magari colmo dei cadaveri di migranti o esso stesso allusione di una marea di profughi in cammino; oppure in confronto alla grandezza delle fortificazioni (essenzialmente mura e filo spinato) che cingono l’Europa. In una specifica tipologia di immagini di questo ambito, Alan è riposto su delle enormi mani (umane, celesti, marine o terrestri), quasi come si trattasse di una coccola, un’orazione o un’offerta da porgere ad una divinità o all’umanità intera.
Infine, vi sono i disegni sul trambusto mediatico, in cui il mare è formato dal chiacchiericcio dei “bla bla” o dall’illusorio attivismo dei like di facebook, dove la spiaggia è piena di bagnanti indifferenti e sui televisori scorrono immagini che vengono guardate senza alcun coinvolgimento. Di questa categoria fanno parte anche almeno due disegni che mischiano notizie e, va da sé, immagini di grande impatto: quella del piccolo Alan, appunto, e il fotogramma di un video che riprende l’attimo in cui una giornalista ungherese mette lo sgambetto ad un migrante, il quale, scappando dalla polizia in una
zona del confine tra Serbia e Ungheria, cade a terra con suo figlio. Per quel che riguarda il nostro tema, la reporter è ritratta mentre allunga la gamba per far rotolare il bimbo sulla spiaggia turca, in un riferimento che potrebbe andare oltre il dato specifico e coinvolgere allegoricamente la stampa internazionale per il modo in cui copre la cronaca della guerra e le notizie relative al fenomeno migratorio.
Evanescenza e memoria
Pur nelle differenze tra le cinque categorie individuate, l’insieme di queste immagini fa riferimento ad Alan con una duplice, ma precisa identità, quella del migrante e quella del bambino. Da tali sottintesi scaturisce la convinzione che esso equivalga ad una sorta di “messaggio nella bottiglia” (altra raffigurazione ricorrente), ovvero ad un depositario di verità, al contempo civile e sovrannaturale. In ciascuno di questi esempi, in altre parole, si ritiene che l’immagine detenga un potere sociale o psicologico, che essa sia il terreno su cui si dovrebbe condurre la lotta politica o il luogo di articolazione di una nuova etica.
Non c’è dubbio che le immagini abbiano un potere, sebbene non sia così semplice quantificarlo (è «molto più grande di quanto si ammetta», sostiene David Freedberg; è, invece, «più debole di quanto non si pensi», ribatte W. J. T. Mitchell). Se, però, mettiamo da parte l’idea che le immagini sono veicoli di significato o strumenti di potere, ci accorgiamo che esse sono dotate di un’ulteriore caratteristica: hanno dei desideri, “vogliono” qualcosa.
Può sembrare un principio surreale e provocatorio, eppure è grazie ad esso che, dall’insieme di disegni che ho preso in considerazione, se ne riescono a scorgere alcuni che vanno a formare una sesta categoria, quella dell’evanescenza. In queste opere il bimbo non c’è più e le finalità specifiche di ciascun artista spaziano dalla denuncia di un precoce oblio del dramma ad una sopraggiunta indifferenza dopo la compassione, fino ad una rimozione delle condizioni dei subalterni. Andando oltre questo piano interpretativo, però, tali illustrazioni “vogliono” tutte la stessa cosa, cioè evidenziare l’assenza: Alan non era (solo) un migrante, né (solo) un bambino, ma era innanzitutto una persona.
Attraverso il vuoto, quelle immagini superano la rappresentazione dell’alterità e della fragilità per esaltare, piuttosto, l’unicità dell’individuo e la sua irrimediabile perdita. Nascondendo il corpo dietro una macchia nera, scomponendolo in geometrie cubiste, evocandolo con un’ombra o un’orma, ricordandolo attraverso vestitini vacanti o per mezzo di una vaporosità cromatica, la mancanza di Alan costringe la nostra memoria a ricordare e la nostra mente a immaginare, così da colmare quella privazione con qualcos’altro, magari con il volto di un nostro prossimo.
Ci è voluta, dunque, la violenza oculare delle prime foto, riverberata attraverso innumerevoli interpretazioni più o meno coerenti, pertinenti, rispettose o provocatorie, per giungere all’immagine che, più delle altre, vuole realmente farci entrare in empatia con la violenza dell’esclusione e con il dolore dell’Altro. Questo processo visuale e mediatico di elaborazione collettiva del cordoglio è stato filtrato attraverso l’acquisizione mnemonico-creativa di una specifica fotografia: essa, con ogni probabilità, non cambierà la storia, ma, più verosimilmente, segnerà i ricordi di una generazione. Ciò che non possiamo prevedere, tuttavia, è come nel futuro sarà manipolata la memoria di questi mesi e anni, come verrà trasmessa l’emozione collettiva costruita sull’immagine di un bambino solo, disteso carponi su una spiaggia primordiale e senza tempo.
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